Qualche giorno fa è uscito il sesto numero di Quants, una nuova rivista culturale che vi consiglio. All’interno trovate una chiacchierata tra il sottoscritto e Raffaele Alberto Ventura, autore che conosco e stimo da tempo, sui temi del mio libro La signora delle merci. Ve ne riporto un estratto editato per brevità.
Debord denunciava che il mondo si era “allontanato in una rappresentazione”, ovvero era stato progressivamente messo a distanza dall’esperienza diretta degli individui attraverso una serie di mediazioni legate alla divisione del lavoro: il mercato, la burocrazia… Insomma viviamo in uno “spettacolo” perché tutto quello che consumiamo arriva a noi dopo innumerevoli passaggi, e questo rende invisibile il modo in cui è stato prodotto. La logistica realizza questa condizione all’ennesima potenza, perché oltre a essere una mega-macchina che ci fa arrivare le merci è anche una macchina per invisibilizzare il lavoro che contengono. Quindi, tra le altre cose, i rapporti di sfruttamento lungo la catena del valore. Questo lo mostri molto bene. In questo senso, se ci pensi, la logistica contribuisce alla produzione d’ignoranza, ci rende più stupidi o perlomeno inconsapevoli. […] Potresti dirmi come funziona secondo te questo processo di occultamento e se, anche in questo caso, è possibile immaginare un suo superamento?
Questo processo di occultamento non è strettamente contemporaneo. Ogni volta che un mezzo di trasporto colma una distanza tra il luogo di produzione (o di estrazione) di una cosa e il suo mercato finale, c’è, implicita, una dinamica di rimozione dei modi in cui quella cosa è stata fatta od ottenuta.
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È invece senz’altro un fatto nuovo […] la consapevole e deliberata “finanziarizzazione” della distanza. Essa comincia quando le compagnie commerciali del Seicento trasformano l’accesso a merci di luoghi distanti in un mercato “secondario” che produce rendimenti (anche) indiretti. Di cui non godono più solo i mercanti e compratori delle merci, ma un numero sempre maggiore di individui: nuove classi con nuovi bisogni e nuove culture. Come scrivo nel libro, con la distribuzione dei primi dividendi della Compagnia olandese delle Indie orientali anche tra la medie e piccola borghesia locale: «da privilegio di pochissimi, in virtù degli sviluppi logistici, la dissociazione spaziale tra il modo in cui il benessere era goduto e quello, spesso brutale, con cui si riproduceva divenne esperienza di un numero sempre più grande di individui».
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Nell’Ottocento e nel Novecento questa dinamica di messa a mercato delle distanze è stata accelerata dalle nuove tecnologie di trasporto (dal treno all’aereo) e di gestione/coordinazione di informazioni e processi complessi (dal telegrafo ai software gestionali). Questo fa sì che oggi si sia in grado di gestire la produzione dell’oggetto forse più complesso mai prodotto serialmente dall’uomo – il microchip – attraverso filiere che, tutto considerato, coinvolgono migliaia di aziende e attraversano l’intero pianeta. Il tutto con le conseguenze sul lavoro e sulla politica che citavi tu: la possibilità di spazializzare i processi permette di polverizzare la forza lavoro e quindi anche la sua coesione politica. Il che è una rivoluzione di cui, secondo me, non si è davvero compresa la portata. Tutta la storia (non solo occidentale) dell’Otto e Novecento sembrava andare nella direzione del problema/governo/”ricatto” delle masse e poi improvvisamente, in meno di trent’anni, per una serie di innovazioni tecniche, legali, economiche, si è ribaltata completamente l’inerzia di due secoli.
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La logistica è in qualche modo una lingua mondiale, una koiné, una Weltliteratur per citare di nuovo Goethe, ma soprattutto una grande maglia che copre l’intero pianeta. Come credi si realizzeranno le prospettive di decoupling delle economie nazionali? In che modo la logistica sopporta le frontiere, le dogane, le regole? La sua volontà di potenza finirà comunque per prevalere? E se invece non lo farà, è possibile che si impongano dei “linguaggi logistici” concorrenti, degli standard diversi e incompatibili che manderanno in corto circuito la rete mondiale degli scambi? Perché la logistica è davvero una lingua, e la torre di Babele non sembra poi tanto lontana dal crollo.
Credo non si debba pensare che la logistica sia solo trasporti o solo globalizzazione. Non c’è soltanto una logistica del macro e del globale ma anche una logistica del piccolo e del locale. Come cerco di mostrare nel libro c’è, per esempio, un retroterra di pensiero logistico non solo dietro i flussi internazionali ma anche dentro i processi interni alle singole aziende. È il pensiero che, a inizio Novecento, ha portato alla formazione delle catene di montaggio, ovvero il fatto socio-economico più importante dello scorso secolo almeno fino agli anni Settanta, nonché la matrice delle odierne filiere.
Detto ciò, è innegabile che per la logistica dei flussi internazionali, i periodi d’incertezza e interregno non siano l’ideale. Tuttavia è proprio durante queste fasi che la logistica, darwinianamente, soprattutto evolve.
Il seme dell’idea (fondamentalissima!) del container non viene, per esempio, gettato nel terreno già arato della seconda globalizzazione ma molto prima, negli anni Trenta, in una fase di grande incertezza geopolitica, di ritorno del protezionismo, di forte competizione tra nuovi e vecchi sistemi di trasporto. Poi…certo, per cominciare a crescere quel seme ha avuto bisogno di climi più miti – la prima Pax Americana – ed è infine sbocciato nella parentesi dell’unipolar moment, ma se guardiamo alla sua storia ci accorgiamo che, anche in quel contesto, sono stati soprattutto i traumi e le discontinuità a farlo maturare: la crisi di Suez, la guerra in Vietnam, lo shock energetico degli anni Settanta… Riguardo agli standard. Nuovi standard stanno già affermandosi. Banalmente perché la potenza logisticamente più attiva al mondo, la Cina, lavora da anni per esportarne il più possibile (in tutti i campi, non solo la logistica). È il primo caso, credo, di una potenza che, ancora prima di essere egemone, si pone in modo deliberato l’obiettivo di impadronirsi di più “network power” possibile attraverso l’imposizione di standard.
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Data questa volontà strategica della Cina, è inevitabile che quando usciremo dall’attuale fase (sempre che ne usciremo “vivi” e purtroppo non ne sono così sicuro), ci troveremo in un mondo dotato di nuovi strumenti e di nuovi linguaggi, decisi non più “qui” ma altrove.
Prima dell’eventuale avvento di questo nuovo equilibrio, è indubbio che ci sarà (ci siamo già dentro) una fase di frammentazione delle sfere e di sovrapposizione degli standard, che sicuramente alimenterà anche delle frizioni logistiche…
Il resto, se vi pare, lo trovate a questo link.
A inizio settimana per Appunti, l’ottima newsletter di Stefano Feltri, ho scritto della politica industriale italiana e delle sue croniche mancanze di tempismo, particolarmente gravi in questa fase di “frammentazione delle sfere” (vedi risposta sopra, ché tutto si tiene). Anche in questo caso riprendo un estratto, rimandandovi al substack di Stefano per il testo integrale.
Ci troviamo in una congiuntura storica destinata ad avere conseguenze a lungo termine sui prossimi decenni. Essa richiede la capacità di interpretare il cambiamento e indirizzarlo.
Eppure ben poco dell’urgenza del momento sembra giungere in Italia. Al di là delle tragiche crisi internazionali, il dibattito politico e pubblico del Paese prosegue infatti avviluppato intorno alle bagattelle di sempre.
La politica industriale non è peraltro solo un tema industriale. Da essa dipendono, o dovrebbero dipendere, politiche dell’immigrazione e della formazione, scelte energetiche e investimenti infrastrutturali, piani finanziari e normative ambientali, solo per dirne alcune.
In quanto profondamente strategica per l’avvenire di un paese, la politica industriale è, a tutti gli effetti, anche un fatto culturale.
Riflette la capacità delle classi dirigenti di leggere, in tempo reale, il contemporaneo e determinare un ruolo al suo interno. È, in tal senso, una cifra della vitalità intellettuale e della qualità del dibattito che una società è in grado di esprimere.
Un esempio di tema di politica industriale che, in relazione alla sua importanza, è stato quasi per nulla commentato e discusso, è la recente decisione di accorpare le otto Zone Economiche Speciali del Sud – istituite dal governo Gentiloni nel 2017 e mai diventate davvero operative, a eccezione di quella Campana – in una grande ZES Unica, secondo un modello che sembra tuttavia ignorare come questo tipo di “zone” funzionino, dovunque, meglio secondo un principio di specializzazione verticale.
Viceversa una singola grande ZES, con una governance orizzontale a più territori, corre il rischio di trasformarsi nell’ennesimo strumento “di politiche generaliste per il Mezzogiorno che storicamente hanno prodotto risultati assai modesti, sia in termini di capacità che di efficienza della spesa” (il virgolettato è di uno studio di Assonime). E dire che con la riorganizzazione delle filiere in corso, delle ZES logisticamente competitive nel Mediterraneo potrebbero rappresentare una fondamentale risorsa strategica per il Mezzogiorno e il Paese intero. Ma quanti di noi hanno sentito discutere di questa scelta sui nostri giornali o nelle televisioni?