Macro | 🇭🇰 Il fronte di Hong Kong 🇭🇰
Perché la nomina di Rubio potrebbe surriscaldare il confronto tra Cine a USA intorno all'ex colonia britannica
La nomina di “Segretario di Stato” era, ed è, una delle più indicative per provare a immaginare la postura della seconda amministrazione Trump in materia di politica estera, in particolare nei confronti della Cina.
L’assegnazione della carica a Marco Rubio ci dice che Trump – aldilà delle dichiarazioni da realista moderato con cui si è talora schermito in campagna elettorale – intende essere estremamente assertivo con Pechino e sposare nel merito la linea dei più aggressivi “falchi” repubblicani.
Rubio è stato in diverse occasioni talmente ruvido da essersi “meritato” non una ma ben due sanzioni dalla diplomazia di Xi Jinping.
Rubio si è espresso con durezza, e in più occasioni, su tutti i principali contenziosi che gli Stati Uniti hanno con la Cina: dal tema della competizione economico-industriale a quella tra modelli politici, dalla questione della sicurezza di Taiwan a quella del rispetto dei diritti degli uighuri.
C’è però un tema, e un luogo, a cui Rubio ha prestato più attenzione di quasi qualunque altro politico americano, ovvero Hong Kong e il suo statuto che, vi ricordo, andrebbe inquadrato nel contesto della famosa dottrina “una Cina, due sistemi”, che tuttavia il Partito di Xi sembra sempre meno incline a rispettare, soprattutto dopo la dura repressione delle rivolte del 2019/2020.
A tal proposito, nel 2019, Rubio è stato il principale promotore del Hong Kong Human Rights and Democracy Act in supporto di sanzioni contro i funzionari del Partito implicati in violazioni dei diritti umani nell’ex colonia inglese, una vicenda tornata proprio in questi giorni alla ribalta con il processo all’ex magnate dei media Jimmy Lai.
Non c’è dubbio che Rubio continuerà a insistere su Hong Kong anche nei panni della più alta carica diplomatica degli Stati Uniti, aggiungendo così carne al fuoco della rivalità sino-americana.
E in un certo senso, Hong Kong rappresenta il luogo ideale per il confronto tra gli Stati Uniti di Trump e la Cina di Xi Jinping: tra il nazionalismo turbo-capitalista del primo e il credo autocratico-dirigista del secondo.
Fino a qualche anno fa, Hong Kong era del resto il luogo che l’intellighenzia neo-liberale – e anche libertaria – occidentale indicava come modello di democrazia e capitalismo da imitare.
È risaputo che Milton Friedman scelse proprio Hong Kong per ambientare le sequenze iniziali del suo celebre documentario Free to choose, introducendo la città con queste parole: “se volete davvero vedere come funziona il libero mercato, dovete venire in questo posto”.
Anche Peter Thiel, ex socio di Musk in PayPal, eminenza grigia della finanza tech contemporanea e capofila del credo libertarian, considera il “laissez faire” che si pratica(va) a Hong Kong come una sorta di “utopia realizzata”, un prototipo per i progetti di seasteding che da anni promuove.
E proprio Thiel ha sottolineato spesso il tema della contrapposizione tra il modello iper-liberista di Hong Kong e quello iper-statalista cinese. Nell’introduzione che ha scritto nel 2020 per una ristampa di The Sovereign Individual – nota bibbia del movimento libertarian pubblicata nel 1997 – a un certo punto si legge:
La Cina comunista ha schiacciato la città-stato di Hong Kong, mentre Rees-Mogg e Davidson [gli autori del libro, ndR] avevano descritto Hong Kong come "un modello mentale del tipo di giurisdizione che ci aspettiamo di vedere prosperare nell'era dell'informazione".
Data la composizione ideologica del “nuovo” trumpismo, il ruolo di Rubio, la visibilità del caso Lai e l’influenza che lo stesso Thiel già esercita sul futuro vicepresidente J.D. Vance, si può facilmente ipotizzare, nei prossimi mesi/anni, un notevole ritorno di fiamma per la questione Hong Kong.
Una questione che il modello “una Cina, due sistemi” – ideato da Deng Xiaoping nel 1980, rettificato con il passaggio di Hong Kong dalla supervisione inglese a quella cinese nel 1997, e reificato nella cosiddetta “legge fondamentale” di Hong Kong – puntava a tenere in ghiaccio per ancora qualche decennio (il passaggio sotto la piena sovranità cinese dovrebbe in teoria avvenire nel 2047) ma che la reggenza di Xi Jinping ha notevolmente incendiato.
È così che oggi Hong Kong, e il suo contrasto all’ortodossia di Xi, possono essere usati dagli Stati Uniti come maglio retorico da scagliare contro la Cina, in una sorta di contrappeso strategico rispetto all’attitudine che la stessa Cina ostenta nei confronti di Taiwan e della sua sovranità: un altro tema regolato da una dottrina complessa e macchinosa come quella de “una sola Cina”.
Come già accennato sarebbe significativo se, in futuro, Hong Kong assumesse – anche soltanto a livello di percezione – un ruolo ancor più importante nelle schermaglie tra USA e Cina, poiché l’ex colonia britannica rappresenta davvero una perfetta linea del fronte, tra i contrapposti modelli (di Stato, di economia, di società civile etc) della Cina di Xi Jinping e dell’America che ha in mente Donald Trump.
Come ha magistralmente, e approfonditamente, ricostruito lo storico Quinn Slobodian ne Il capitalismo della frammentazione, lo sviluppo di Hong Kong ha poco a che fare con il liberismo decantato da Friedman ed è semmai una vicenda di oligarchismo radicato che, lungi da volersi liberare dello Stato, ha spesso usato i suoi poteri, e il paravento democratico, per difendere i propri interessi (in modo peraltro coerente con una corrente del pensiero libertarian nota come “miniarchismo”).
Scrive Slobodian: “l’essenza del modello hongkongese non era un’idea astratta di libertà economica. Si trattava invece della demarcazione giuridica di un piccolo territorio con poca o nulla democrazia e una forte collusione tra il governo e un circolo ristretto di élite d’affari”.
Si fa fatica a non avvertire in questa constatazione una eco di ciò che l’America promette di essere nei prossimi anni, nel segno del binomio tra strapotere politico di Trump e lo strapotere economico dei tanti tech barons che, da Musk in giù, lo sostengono.
Non stupisce dunque che l’ex colonia inglese potrebbe tornare al centro dei pensieri americani, come era del resto negli anni del primo Trump, sostituendosi, anche solo simbolicamente, a Taiwan nel ruolo di prima faglia di attrito tra USA e Cina.
Entrambi i luoghi – Hong Kong e Taiwan – sono stati resi dalla tumultuosa Storia cinese degli ultimi due secoli e mezzo, due potenti catalizzatori delle tensioni tra Stati Uniti e Cina.
Tuttavia essi esprimono anche significative differenze strategiche e simboliche. Differenza che riflettono tanto la loro specifica vicenda – la zona franca commerciale di Hong Kong e la ricca storia di pianificazione industriale e tecnologica di Taiwan – quanto le differenti idee di America e di politica estera che democratici post-globalisti e repubblicani MAGA tendono oggi a incarnare.
Per i trumpiani, Hong Kong incarna IL perfetto campo di battaglia ideologico, per giocare il confronto tra l'autoritarismo dirigista cinese e l'utopia libertaria evocata da Friedman e Thiel.
Nella retorica di Rubio, Hong Kong viene elevata a simbolo del fallimento cinese nel rispettare i principi di autonomia e libertà che aveva promesso, rendendo più semplice attaccare Pechino non solo dal punto di vista economico, ma anche morale e politico.
Anche per questo motivo, quello intorno a Hong Kong è uno scontro che si conduce più sul piano dei (social) media che su quello dei provvedimenti e delle burocrazie.
Taiwan, invece, in questi anni è apparsa per Biden e i democratici soprattutto una questione di sicurezza nazionale da gestire attraverso la mirata burocrazia di Jake Sullivan e Gina Raimondo sulle transazioni tecnologiche.
Nel contesto della competizione tra Stati Uniti e Cina, Taiwan non è solo un simbolo politico, è soprattutto un pilastro cruciale della catena di approvvigionamento globale dei semiconduttori.
Hong Kong e Taiwan riflettono insomma due strategie divergenti nella sfida sino-americana: la prima come terreno di confronto ideologico su valori e sistemi, la seconda come avamposto di attrito pragmatico tra tecnologie e sviluppo.
Seppure nella continuità di fondo dell’azione di contenimento americano della Cina che – nei fatti – non è mai venuta meno fin dai tempi del “pivot to Asia” di Obama, il “dualismo” Hong Kong/Taiwan ci rivelerà in controluce molte cose sui cambiamenti nella cultura politica americana nel corso di questa transizione tra l’uscente Biden e l’entrante Trump 2.
Se siete nuovi da queste parti, io mi chiamo Cesare Alemanni. Mi interesso di questioni all’intersezione tra economia e geopolitica, tecnologia e cultura. Per Luiss University Press ho pubblicato La signora delle merci. Dalle caravelle ad Amazon, come la logistica governa il mondo (2023) e Il re invisibile. Storia, economia e sconfinato potere del microchip(2024).
sempre molto bravo