Macro | 👷 Il posto del lavoro 👩🏭
Perché la moderna competizione tra potenze ha come oggetto, in fondo, i lavori che facciamo.
Bentornati su Macro!
Spero abbiate passato buone vacanze e che il rientro non sia stato traumatico. Dato il periodo, che appunto coincide per molti con il ritorno all’occupazione, ho pensato che fosse interessante dedicare una lettera proprio al tema del lavoro.
[Parentesi di servizio: questo mese girerò un po’ per presentare il mio libro, La signora delle merci. Tra il 14 e il 30 settembre dovrei essere a Bologna, Milano, Roma, Piacenza, Torino e Ferrara. Seguiranno maggiori dettagli in merito a date, orari e occasione degli eventi]
Ma torniamo al lavoro, in tutti i sensi. O meglio, torniamo alla relazione tra:
1) la competizione globale per fette di crescita economica,
2) la posizione relativa che occupa ciascun Paese all’interno di questa competizione,
3) la tipologia di lavoro, nel senso di mercato dell’occupazione, che è disponibile in quel paese.
Per capire di cosa parliamo è d’uopo introdurre un termine, centrale per il modello produttivo che ha preso forma durante la cosiddetta iper-globalizzazione, tra anni ‘80 e 2000. Quel termine è “global value chain”, catene globali del valore o GVC. Le quali hanno portato i processi industriali a un livello di divisione internazionale del lavoro, tale per cui il valore di quasi qualunque manufatto industriale è oggi distribuito in modo molto disuguale lungo queste “catene”.
Per dirla semplice: le GVC e il loro funzionamento sono la ragione per cui – sebbene sia stato materialmente assemblato da operai asiatici in una fabbrica cinese – gran parte della cifra che ho speso il mio computer è finita nel conto di un’azienda americana e nelle buste paga di designer, progettisti etc sparsi tra la California e qualche altro paese, presumibilmente dell’Occidente avanzato.
Nel meccanismo delle GVC, la parte del leone nell’aggregazione del valore di una merce la fanno soprattutto le fasi di progettazione, ideazione e promozione della stessa e molto meno quelle di manifattura e produzione. E le due fasi, che un tempo si svolgevano nel contesto di singole aziende o quantomeno di singoli Paesi, si svolgono oggi in aziende diverse e talvolta in continenti distinti e distanti.
La divisione internazionale del lavoro/valore è di fatto, da anni, una scala. Alla sua base si svolgono le attività elementari e “a basso valore aggiunto” (estrazione di materie prime, manifattura e così via) mentre sui gradini in cima si trovano i lavori ad “alto valore aggiunto” come la progettazione di nuove tecnologie. Obiettivo e interesse di ogni Stato è cercare di risalire questa scala il più possibile, poiché ciò si traduce in lavori meno logoranti e meglio retribuiti per i propri cittadini. Nella capacità insomma di catturare maggiore valore e ricchezza dall’economia globale. È questo, in fondo, il significato del termine “sviluppo”.
Se questo punto è chiaro dovrebbe esserlo anche il motivo per cui, oggi, la competizione internazionale, che a prima vista sembra ancora riguardare le tradizionali sfere di potenza ed influenza, abbia, in realtà, tra i suoi principali oggetti il lavoro che si svolge nei singoli paesi che vi prendono parte (ovvero, in certo senso, tutti).
Ci si potrebbe chiedere: “ma non è la stessa cosa da sempre”? I paesi più sviluppati non sono, in fondo, sempre stati quelli dove gli impieghi erano migliori e gli impieghi erano i migliori poiché i paesi erano più sviluppati? Sì e no. È certamente vero che, anche in passato, il grado di sviluppo di un paese si rifletteva nel grado di sviluppo (e divisione) lavoro che era in grado di esprimere (come notava, in tralice, già Adam Smith). Tuttavia è una novità di questi decenni che la divisione internazionale del lavoro si rifletta, in modo così chiaro e netto, in uno specchio comune, ovvero la partecipazione alle stesse catene del valore.
Legando assieme diversi paesi intorno a strutture produttive condivise, le catene del valore hanno reso più evidente la sproporzione tra vantaggi e svantaggi insiti nell’occupare una certa posizione all’interno delle suddette. Si potrebbe dire che, attraverso la possibilità di un confronto più chiaro tra il “valore aggiunto” di un’operazione rispetto ad un altra, esse hanno prodotto una forma di (auto)consapevolezza “politica” circa il peso economico del lavoro. Una consapevolezza che in passato era molto più sfuggente.
Soprattutto tra i Paesi che ritengono di occupare un gradino inadeguato alle proprie ambizioni, questa consapevolezza ha permesso di mettere con chiarezza a fuoco delle strategie per risalire verso l’alto la scala del valore.
Alcune di queste strategie sono nate ancor prima delle GVC. Sono infatti stati gli economisti strutturalisti sudamericani degli anni ‘50 e ‘60, i primi a far notare come le disuguaglianze tra paesi ricchi e poveri, non sarebbero mai stati colmate se i paesi più poveri avessero semplicemente continuato a svolgere soltanto lavori a basso valore aggiunto. Essi proposero perciò politiche di “sostituzione delle importazioni”, che portassero via, via a rimpiazzare con produzioni interne le importazioni dall’esterno di prodotti avanzati.
Riducendo la dipendenza dall’estero, lo scopo di questa politica era di sollecitare la creazione di lavoratori sempre più qualificati. Il tentativo naufragò, in parte per il cambio delle congiunture economiche negli anni ‘70, in parte per l’opposizione più o meno esplicita delle economie avanzate, in parte perché si rivelò impossibile sviluppare dal nulla intere industrie integrate verticalmente, con tutte le precondizioni (dal credito all’istruzione) da esse richieste.
Oggi tuttavia le cose sono diverse e per molte ragioni.
La prima è che un caso di successo (seppure con delle specificità) di “industrializzazione per sostituzione delle importazioni” esiste ed è attualmente la seconda potenza al mondo: la Cina. Un paese molto più coriaceo dell’America Latina degli anni ‘70 e che ha sufficienti risorse, come sta dimostrano nel campo dell’AI, per competere con i paesi occidentali più avanzati nella formazione di un elevato numero di lavoratori altamente qualificati. La seconda è che la specializzazione delle catene del valore fa sì che oggi non sia più richiesto lo sviluppo di interi settori industriali da zero. È sufficiente specializzarsi in ambiti particolarmente nodali per esercitare grande influenza anche su paesi ed economie molto più avanzate. La terza ragione è che, come già accennato, la risalita della scala gerarchica del valore/lavoro è un fattore strategico divenuto ormai molto chiaro nella consapevolezza delle classi politiche delle economie emergenti. Lo dimostra il fatto che esso ricorre con regolarità nelle dichiarazioni dei leader dei principali BRICS che lo indicano come una dei principali assiomi da scardinare nell’attuale ordine internazionale.
La centralità della questione, tuttavia, si può osservare ex post anche nel recente cambio d’orientamento dell’economia politica occidentale, in primis degli Stati Uniti. Il tentativo di ritornare all’autarchia industriale e la crescita di forme di protezionismo in settori produttivi strategici, e a valore aggiunto particolarmente alto, risponde anche al tentativo di scompaginare le attuali strutture internazionali del valore/lavoro, così da fermare, o quantomeno rallentare, la risalita da parte, in primis, della Cina. Il paradosso “occidentale” è che mentre si cerca di stoppare la scalata ai vertici si sta cercando, per ragioni di equilibri socio-economici interni, anche di riappropriarsi dei lavori industriali a “basso valore aggiunto”. Una postura da asso-pigliatutto che difficilmente si potrà finanziariamente sostenere a lungo.
In ogni caso, è ormai evidente che ci troviamo in una fase di militarizzazione dei processi produttivi, e dei relativi lavori, dai risvolti molto complessi e dagli esiti potenzialmente rivoluzionari. Nulla infatti esclude che, osservando il mondo tra qualche decennio, non si ritrovi nella congiuntura odierna la fase in cui – anche in conseguenza di decisioni politiche dei paesi in cima alla scala – l’asse del lavoro-valore globale si è ribaltata definitivamente in favore dei paesi che oggi si trovano relativamente più in basso.
A rendere ancora più difficile da leggere questo scenario è il fatto che, secondo gli esperti del campo, con il crescente diffondersi delle AI ci troviamo all’inizio di una potenziale nuova “rivoluzione industriale”. Una rivoluzione in grado non solo di ridefinire profondamente intere industrie ma anche il concetto stesso di “lavoro” e, dunque, di modificare il suo posto e il suo valore nelle strutture socio-economiche globali.
La signora delle merci è il mio secondo libro. È uscito a maggio per LUISS University Press.
Parla del ruolo della logistica e dei grandi trasporti nel mondo di ieri e di oggi. Parla di Amazon e di navi fenicie, di Alessandro Magno e di container, di supply chain e di Spazio, di guerre coloniali e di Repubbliche Marinare, di Keynes e di Friedman.