[ANNUNCIO: se siete a Bologna e vi va, il 14 settembre alle 18.30 presento il mio libro La signora delle merci presso la fondazione MAST. A parlarne con me ci sarà l’ottimo Luca De Biase. Sono molto contento di questa opportunità, perché è un’istituzione di cui, da tempo, apprezzo il lavoro e le tematiche. E ora veniamo alla lettera di oggi.]
L’11 settembre 1823 moriva David Ricardo, uno dei più influenti economisti della Storia: in ordine strettamente cronologico il secondo grande esponente della “scuola classica”, dopo Adam Smith (nato un secolo esatto prima, il 16 giugno del 1723).
Figlio di una dinastia di mercanti ebrei espulsi dal Portogallo e approdati, come molti sefarditi tra Sei e Settecento, prima nei Paesi Bassi e poi in Inghilterra, Ricardo ha offerto contributi nell’ambito della teorie del valore, del commercio internazionale, dei salari e così via.
Nessuno dei concetti ricardiani, tuttavia, è ancora oggi prensile quanto la “legge dei rendimenti decrescenti” che Ricardo espresse, per la prima volta, nel Saggio sull’influenza del basso prezzo del grano sui profitti (1815):
“Gli aumenti di produzione agricola risultanti da eguali incrementi nell'impiego di dosi successive di lavoro complesso, ferma restando la quantità di terra messa a coltura, prima crescono e poi decrescono”
In soldoni, Ricardo sosteneva che la produttività non segue dinamiche lineari. Anzi, oltre una certa soglia, l’aumento di fattori produttivi (lavoro e/o capitali) non solo restituisce risultati insoddisfacenti ma rischia di divenire improduttivo e controproducente.
Ricardo giunse alla teoria osservando l’andamento dei campi coltivati. Il problema del progressivo peggioramento della resa agricola era emerso con forza nel ‘600, quando la crescita demografica aveva spinto gli europei a mettere a coltura terreni sempre meno fertili o a dover sfruttare troppo intensivamente quelli migliori. La questione era così presente nelle menti dei contemporanei che essa veniva lambita, già a fine XVII secolo, nei testi dei padri nobili del pensiero liberale, su tutti Locke.
Il problema dei rendimenti decrescenti emerse dunque durante una crisi di disequilibrio tra demografia e risorse, tra pressioni del mercato e saturazione delle capacità produttive. Una situazione che ricorda quella di alcuni settori della vita contemporanea, economica e non solo, in questa fase di “interregno”.
La teoria dei “rendimenti decrescenti” è – si potrebbe azzardare – una specie di “legge dell’infelicità umana”, l’inverso mefistofelico dell’utopico “paese di Cuccagna”. Da essa dipendono – e con essa si spiegano – alcuni dei grandi problemi che da sempre affliggono le società umane.
Di fatto troviamo tracce di “rendimento decrescente” in ogni ambito e periodo storico. Nell’industria, ovviamente, ma anche nelle dinamiche della domanda. Ponendo la questione in prospettiva ricardiana, dal punto di vista di uno Stato keynesiano è possibile rileggere la fine dei cosiddetti miracoli economici del dopoguerra, come un problema di rendimento decrescente dei consumatori. Per cui l’aggiunta di nuove unità di consumo tramite investimenti, cominciò a costare più di quanto quella stesse unità restituissero al sistema Stato in termini di entrate fiscali.
Un caso molto “visibile” di rendimento decrescente, è l’attuale deriva dei social media. Apparsi inizialmente come terreni incolti, essi si sono sovrappopolati di contenuti e utenti, divenendo progressivamente terreni in cui l’investimento (di tempo o di denaro, che sono, come dice il saggio, la stessa cosa) richiesto per ottenere attenzione è lievitato, generando tuttavia ritorni sempre più scarsi in proporzione ai costi (un fresco case study: la spunta di twitter/X).
Esistono poi contesti in cui il fenomeno della decrescita dei rendimenti torna ad assumere sembianza del tutto materiali. Per esempio il settore dell’energia. Se esiste un ambito in cui le dinamiche agricole osservate da Ricardo si possono “tradurre” in scala 1:1 è proprio quello energetico. È una questione mineraria (di cui peraltro già era al corrente Ricardo nel suo Principi di economia, politica e dell’imposta). Ci sono giacimenti di petrolio più o meno facili da raggiungere, miniere più o meno agevoli da lavorare. E una volta esaurite le prime, è inevitabile doversi dedicare alle seconde. Ciò però richiede maggiori investimenti senza tuttavia garantire maggiori o identici ritorni e così via.
Come scrive Guillaume Pitron ne La guerra dei metalli rari:
“Quanta energia serve per produrre energia? […] Un secolo fa serviva in media un barile di petrolio per estrarne cento; oggi lo stesso barile ne produce, in alcune zone di trivellazione, solamente trentacinque. Le tecnologie di trivellazione hanno acquisito efficienza ma i giacimenti più accessibili sono stati esauriti ed è stato necessario trivellare nuovi pozzi più difficili da sfruttare e che richiedono più energia […] È una corsa in avanti di cui intuiamo l’assurdità. Il nostro modello di produzione avrà ancora senso il giorno in cui un barile consentirà di riempirne solamente un altro?”
Come Sisifo, la legge dei rendimenti decrescenti ci ricorda la precarietà e la futilità della fatica umana, e allo stesso tempo la esalta.
Decretando l’impossibilità di migliorare la resa di un’attività col semplice aumento di lavoro o capitali, il paradosso dei rendimenti crescenti si trasforma spesso in un motore di innovazione tecnologica. E, anzi, a lungo si è ritenuto che la differenza con l’epoca di Ricardo risiedesse proprio nella capacità della tecnologia di annullare gli effetti della decrescita dei rendimenti. Tuttavia, da qualche decennio, stiamo scoprendo che anche la tecnologia e l’innovazione soffrono proprie, peculiari, dinamiche di rendimento decrescente.
Gli esempi sono numerosi, specialmente per quanto riguarda la tecnologia destinata al consumatore finale. Si pensi alla competizione nell’ambito degli smartphone, in cui, negli ultimi 15 anni, sono stati riversati fiumi di capitali e lavoro per “migliorare” in modo appena “incrementale” l’oggetto finale.
Il funzionamento materiale dei nostri oggetti tecnologici dipende da microchip, la cui continua miniaturizzazione è, anch’essa, “vittima” di rendimenti decrescenti. Come ha dichiarato di recente Jensen Huang, CEO di Nvidia, la “legge di Moore è morta”. Quella di Huang era evidentemente un’iperbole. Tanto per cominciare la legge di Moore non è mai stata una vera e propria legge fisica, e quindi non è possibile, in senso stretto, decretarne la fine (di fatto la legge di Moore è più simile a una legge economica-manageriale, con diversi punti in comune proprio con la teoria ricardiana dei rendimenti). Huang, tuttavia, segnalava il pericoloso avvicinarsi del momento in cui ogni raddoppiamento del numero di transistor richiederà un rimpicciolimento tale da causare un pari aumento dell’energia richiesta per farli funzionare.
Questo fenomeno potrebbe rappresentare un collo di bottiglia al possibile avanzamento dei chip e delle tecnologie che ne fanno uso, e trasformerebbe gli oggetti che contengono chip in costosissime idrovore di energia, del tutto insostenibili dal punto di vista economico e ambientale.
In altre parole un eventuale rendimento decrescente nella produzione di chip impatterebbe sul settore dell’energia che, come detto, ha già di suo cronici problemi di rendimento, generando una serie di “effetti farfalla” con il potenziale di impattare, a cascata, l’intera economia.
Del resto Ricardo aveva già compreso come il problema della resa decrescente non fosse mai un fenomeno confinabile a un singolo settore dell’economia. Ovviamente all’epoca egli non poteva immaginare l’intricata struttura tecnologica delle società e delle economie contemporanee ma, limitatamente agli effetti di più vasta portata del rendimento agricolo decrescente, Ricardo osservava come tali periodi coincidessero quasi sempre con un ulteriore arricchimento di chi disponeva di rendite e e capitali, a fronte di un peggioramento dei salari e delle condizioni economiche, soprattutto, dei lavoratori più poveri.
Gli ultimi decenni sembrano confermare l’analisi di Ricardo. Per ragioni complesse e che gli economisti ancora dibattono, a partire dagli anni ‘60, nell’industria occidentale, ha messo le radici un problema di rallentamento della produttività tale per cui sono stati richiesti capitali sempre più elevati, anche solo per mantenere un livello di produttività accettabile.
Questo fenomeno di decrescita, ha spinto i suddetti capitali a cercare forme di investimento più redditizie, basate sulla rendita più che sulla produttività. A partire, dalla metà degli anni ‘70, si sono così aperte nuove opportunità di investimento, sotto forma di prodotti finanziari sempre più sofisticati da un lato, e di una spinta a dar forma a sistemi industriali meno capital intensive dall’altro. Una spinta che si è tradotta, tra le altro, nella ricerca, fuori dall’occidente, di un mercato del lavoro a costi più bassi per controbilanciare la crescita dei salari occidentali e il costante aumento dei costi tecnologici delle aziende.
Il primo fenomeno, noto come finanziarizzazione è, più o meno direttamente, responsabile della crisi del 2007/8, nel cui cono d’ombra si possono leggere molte delle successive crisi geopolitiche ed economiche degli ultimi 15 anni. Il secondo fenomeno è ovviamente la globalizzazione industriale.
Ed è innegabile che – dal punto di vista dei cittadini e lavoratori occidentali – il combinato disposto dei due fenomeni abbia coinciso con un ritorno a un’economia di rendita: i cui effetti più evidenti sono stati, è sotto gli occhi di tutti, un notevole aumento delle disuguaglianze e un peggioramento delle condizioni di chi dipende dal lavoro per il proprio reddito. Anche su questo, insomma, Ricardo ci aveva giusto.
La signora delle merci è il mio secondo libro. È uscito a maggio per LUISS University Press.
Parla del ruolo della logistica e dei grandi trasporti nel mondo di ieri e di oggi. Parla di Amazon e di navi fenicie, di Alessandro Magno e di container, di supply chain e di Spazio, di guerre coloniali e di Repubbliche Marinare.
Parla anche di decrescita dei rendimenti industriali e di come essa abbia spinto, a partire dagli anni ‘70, alla spazializzazione/logisticizzazione dell’economia globale.
Se ti interessa lo puoi comprare qui o qui.
Il 14 settembre lo presento al Mast di Bologna, sabato 23 settembre al Festival del pensare contemporaneo di Piacenza, e sabato 30 settembre al Festival di Internazionale a Ferrara.