Macro | 🇨🇳 Il senso della Cina per il mare ⚓
Di esploratori del Seicento, di grandi flotte del Quattrocento e di container del Ventunesimo secolo.
[SAVE THE DATE: Domenica 19 novembre a Milano, alle 12.30 (sigh) io e Paolo Iabichino discutiamo del mio libro La signora delle merci presso il Museo del Design, in Piazza Compasso D’Oro 1]
L’11 luglio del 1405, nel porto di Suzhou spiegava le vele una flotta immensa: 317 navi, 28mila uomini. A comandarla era un eunuco di nome Zheng He e la sua missione era di stabilire un sistema di tributi sulla base dei commerci, sempre più floridi, che si svolgevano nell’Oceano Indiano.
Nel giro di quindici anni, e in una serie di successivi viaggi, la flotta di Zheng He giunse fino al Mar Rosso e al corno d’Africa, smantellando lungo l’itinerario famigerate bande piratesche e prendendo contatto coi principali mercati della macro-regione. Zheng He offriva oro, porcellane e seta e otteneva in cambio di cammelli, avorio, zebre e giraffe; animali che, una volta in Cina, destarono enorme impressione.
Nel 1424, tuttavia, l’imperatore Yongle morì e i suoi successori decisero di sospendere la spedizioni oceaniche. A loro dire esse erano contrarie allo spirito confuciano e toglievano risorse all’annoso problema di contenere le incursioni nomadiche ai confini dell’Impero. Le giraffe erano di certo affascinanti ma poco utili e se erano il meglio che il mercato al di là del mare aveva da offrire, la Cina ne avrebbe fatto a meno.
E così quando la minuscola flotta di Vasco da Gama, appena 4 navi e 170 uomini, giunse nell’Oceano Indiano, esattamente 74 anni dopo la morte di Yongle, non trovò una soverchiante forza marittima ad attenderla ma una struttura disorganica di reti commerciali poco protette militarmente. Il resto è Storia.
Nel giro di un secolo dalle spedizioni di Vasco da Gama, gli europei presero controllo dei traffici asiatici, fino a diventarne i principali beneficiari. Compresero in tal modo una lezione che ai cinesi non era parsa interessare. Ovvero, come disse con solennità nel 1616 l’esploratore inglese William Raleigh: “chi controlla il mare comanda il commercio del mondo, chi comanda il commercio del mondo comanda le ricchezze del mondo, e di conseguenza comanda il mondo stesso”.
Le intuizioni di personaggi come Raleigh furono alla base dei Navigation Acts di fine ‘600: una serie di editti con cui l’Inghilterra investì enormi risorse per potenziare al massimo la propria capacità di trasporto e commercio oceanico. Quegli editti si dimostrarono a loro volta la base per la costruzione di un immenso impero coloniale-commerciale. Un impero che nell’800 era ormai potente al punto da costringere persino la Cina a venire a patti coi suoi “ingiusti trattati” (dalla cui firma i cinesi datano l’inizio del cosiddetto “secolo dell’umiliazione”).
Il modello dell’Inghilterra, primo Stato della modernità a concepire in modo deliberato – e tramite gli strumenti del “capitalismo politico” – una via alla potenza imperniata intorno alla conquista del mare, fu l’esempio intorno a cui gli Stati Uniti plasmarono la loro ascesa nel Novecento. Ed è a quello stesso esempio che oggi la Cina sembra ispirarsi per riprendere il filo di una storia che si è interrotta ormai 600 anni fa.
Come si dice in questi casi, i numeri parlano chiaro. La Cina ospita attualmente sette dei primi dieci porti al mondo per volume annuale di traffico. Attraverso conglomerati e armatori direttamente controllati dallo Stato – COSCO, CMG, CK – ne “possiede”, interamente o in parte, altri cento in 63 paesi del mondo. Nel 2022, la Cina ha movimentato 242 milioni di TEU di carico, un numero quattro volte superiore agli USA.
Tra 2011 e 2021, la flotta mercantile di proprietà di conglomerati cinesi è raddoppiata e continua a crescere con un ritmo del 10% annuo, pari al 48% delle nuove navi da cargo messe annualmente in mare. Nel frattempo la Cina è diventata anche “patria” del container, producendo il 96% (!) delle nuove scatole in circolazione nel mondo e quasi l’80 delle gru per movimentarle.
La superiorità cinese non è soverchiante solo nella marina commerciale ma anche nell’ambito delle petroliere, delle navi da pesca e, dato fondamentale, nella marina militare. Nel 2021 la “Marina del Popolo” ha superato, per numero di navi, la US Navy (rimane un gap tecnologico e missilistico a favore degli americani) e, se continuasse l’attuale trend nella superiore capacità cinese di costruzione delle navi, si prevede che entro il 2030 la marina cinese sarà il 50% più grande di quella americana.
Tutto questo non è frutto del caso ma di scelte di politica industriale ben precise, e assolutamente deliberate, che la Cina ha portato avanti con l’idea che una superiore capacità logistica sul mare sia viatico per una superiorità economica e in ultima analisi geopolitica.
Le date chiave in proposito sono numerose. Ne ricordo solo due: la prima è il 1991, anno dell’ottavo piano quinquennale di sviluppo promulgato dal Congresso Nazionale del PCC, l’ultimo ispirato da Deng Xiaoping. Esso dà un primo importante impulso alla infrastrutturazione logistica del paese, inclusa la sua capacità portuale – che viene aumentata di 138 milioni di tonnellate nel giro di due anni.
A partire da quel momento, e per tutti gli anni ‘90 e 2000, la Cina comincia una imponente stagione di sussidi all’industria navale, ritenuto settore strategico per promuovere lo sbalorditivo sviluppo cinese che accelera proprio in quegli anni, anche grazie all’inclusione della Cina nelle filiere della produzione industriale globalizzata.
La seconda data fondamentale è l’autunno del 2013, dieci anni fa. Dopo aver svelato una equivalente iniziativa terrestre in Kazakistan, Xi Jinping, fresco di leadership, annuncia a una platea di Jakarta, la creazione di una “via della seta marittima”.
Dopo una lunga stagione di consolidamento della propria industria navale e della propria portualità interna, nel 2013 la Cina comincia una politica estremamente decisa anche per quanto riguarda l’acquisizione di asset navali internazionali: in particolare porti strategici nei principali snodi logistici dell’emisfero eurasiatico e non solo.
Nel quinquennio successivo all’annuncio di Jakarta, la Cina ha investito 153 miliardi di dollari nell’ampliamento della sua infrastruttura per il trasporto marittimo. Oggi la Repubblica Popolare dispone di 6,908 vascelli di vario tipo e dimensioni, per un valore complessivo di 190 miliardi di dollari. Come detto, le ragioni di questo straordinario exploit hanno a che fare con l’imponente supporto che lo Stato ha garantito in questi anni all’industria navale, in termini di sussidi, incentivi fiscali, agevolazioni normative.
Lo sviluppo navale in questo caso ha una doppia valenza: la prima, e più diretta, è quella di cui abbiamo parlato finora: ovvero il potenziamento della capacità logistica della Cina. Che è ciò che ha permesso al Dragone di trasformarsi nel “motore produttivo” del mondo per quasi trent’anni. Senza una enorme capacità logistica, la Cina non avrebbe mai potuto gestire, in modo economico e scalabile, i flussi di materiali e la grande quantità di canali di fornitura (supply chains) da cui dipendevano le sue fabbriche.
Se consideriamo che il 90% del commercio mondiale viaggia per mare e che più di metà di ciò che viene trasportato per mare sono componenti industriali coinvolti nei sistemi produttivi a filiera, si capisce meglio di cosa stiamo parlando.
Grazie allo sviluppo della sua logistica, che le ha permesso di ridurre i costi di trasporto grazie a effetti di scala, la Cina è riuscita a risultare ulteriormente competitiva e attraente per le aziende che, negli anni della iper-globalizzazione, l’hanno scelta come terra per l’outsourcing delle loro attività di manifattura.
D’altro canto la politica di sussidi e investimenti pubblici nella logistica è servita anche per attivare il metabolismo finanziario ed economico del paese. Non dimentichiamo infatti che la costruzione di infrastrutture e di grandi navi, e in generale le industrie pesanti, hanno, per “natura”, importanti ricadute, anche occupazionali, su un numero enorme di attività e settori.
Per la Cina, l’industria navale gioca un doppio ruolo strategico: da un lato aumentare la competitività industriale cinese in senso ampio; dall’altro fare da settore trainante – in virtù dei grandi effetti di scala che sono tipici delle industrie pesanti – per altri importanti settori dell’economia industriale cinese.
Per non parlare del fatto che, secondo numerosi analisti ed esperti, l’odierna, straordinaria rapidità con cui la Cina è in grado di costruire navi militari moderne (ne abbiamo parlato pochi paragrafi) è di fatto una conseguenza diretta del trasferimento di sapere – tecnologico, finanziario e produttivo – dal settore della marina commerciale a quello della marina militare. E dunque, come accaduto già in passato (v. il caso inglese), sotto le fattezze del “capitalismo politico” emerge evidente la connessione tra sviluppo logistico e sviluppo militare, tra “potere infrastrutturale” e influenza geopolitica
C’è infine un ultimo importante risvolto, profondamente strategico, della superiorità navale cinese. Se consideriamo infatti il trasporto come un servizio essenziale (quale di fatto è) per il funzionamento dell’economia globale, è evidente come la grande concentrazione di “potere logistico”, fornisca a Xi Jinping una potente “arma” strategica. Il tutto mentre, per i rivali della Cina, essa costituisce una chiara fonte di dipendenza e quindi di vulnerabilità particolarmente preoccupante. Specie in una fase in cui l’Occidente, con gli Stati Uniti in testa, stanno cercando di ridurre al minimo la forza negoziale e le leve di ricatto in mano a Xi.
Seicento anni dopo Zheng He, la Cina sembra insomma aver fatto propria la massima di Raleigh: “chi comanda il mare, comanda il mondo”.
La signora delle merci è il mio secondo libro. È uscito a maggio per LUISS University Press.
Parla del ruolo della logistica e dei grandi trasporti nel mondo di ieri e di oggi. Parla di Amazon e di navi fenicie, di Alessandro Magno e di container, di supply chain e di Spazio, di guerre coloniali e di Repubbliche Marinare.
Parla anche (e molto) di Cina, di nuove vie della seta, dell’importanza della logistica marittima e degli argomenti di questa lettera.