Macro | 🇨🇳 Il vero valore del "valore" e l' "altra" guerra mondiale 🇺🇸
La globalizzazione che non si può rimpiazzare e l'incontro Xi-Putin
Come ho scritto ieri, questo weekend rappresentanti di altissimo livello dei governi di Stati Uniti e Cina si incontreranno in Svizzera. Il tavolo negoziale sarà occupato dai temi noti: tariffe, accesso al mercato, guerre commerciali. Ma sotto la superficie cova in realtà una questione molto più profonda, ovvero: come funziona davvero la distribuzione del valore nell’economia globale?
È su questo punto che le guerre commerciali di Trump si rivelano, in definitiva, una trappola. Non solo per i danni che infliggono nel breve periodo, ma perché fraintendono la struttura stessa dell’economia contemporanea. Le catene del valore sono oggi distribuite lungo un asse integrato in cui progettazione, produzione, assemblaggio, logistica e distribuzione sono interdipendenti. Nessuna economia avanzata è in grado di sostituire, da sola, l’apporto di paesi come la Cina. Pensare di punire Pechino colpendo i flussi del commerci significa, nella pratica, spararsi in un piede.
Facciamo un esempio concreto: un computer “prodotto” da una celebre azienda americana acquistato in un Walmart del Wyoming (più MAGA di così…). Sul retro del dispositivo l’acquirente troverà scritto “Designed in the USA”. Un esempio in purezza dell’ “America first” che tanto piace a Trump, dunque? Non proprio.
Dietro quella frase c’è infatti una torta multi-strato di operazioni: la scheda madre viene fabbricata a Shenzhen, la batteria proviene da una fabbrica di Guangzhou, il telaio è prodotto con macchine giapponesi in uno stabilimento del Sichuan, l’assemblaggio finale avviene a Kunshan. Il software è programmato e aggiornato vicino San Diego, ma anche lui viene testato a Chengdu. Il tutto viene spedito via aereo a Chicago, per poi passare nei circuiti della grande distribuzione americana. Non prima però che una serie di ben remunerati creativi, copywriter, social media manager, grafici, esperti di marketing e analisti, basati tra New York, San Diego, Londra e LA, abbia lavorato per far sì che il nostro acquirente conosca, desideri e decida di acquistare proprio quel computer e non un altro.
Prezzo finale da Walmart: circa 1.300 dollari. Ma, anche in questo caso, la cifra è il risultato di una somma di valori che si aggiungono passo dopo passo: 150 dollari per la componentistica cinese, 200 per l’assemblaggio e la logistica, 300 la per ricerca, lo sviluppo e il design dell’azienda informatica americana, 300 per effetto di marketing e comunicazione svolte, 150 per la distribuzione di Walmart, 200 di margine. Se domani venisse interrotto quel flusso fisico di componenti, informazioni e processi, l’intera economia di scala e di scopo che rende possibile (e profittevole) quel prodotto salterebbe. E con essa, posti di lavoro, margini aziendali, ritorni finanziari, investimenti tecnologici. In Cina? Sì, anche, ma soprattutto in America poiché è in America dove le operazioni più lucrative (e speculative) ancora si svolgono.
Questo vale per milioni di prodotti e miliardi di dollari. Ma Trump fa finta di non saperlo (o forse non lo sa davvero).
Secondo diverse analisi, l’embargo de facto sulle merci cinesi, che, a meno di miracolosi accordi in Svizzera, entrerà pienamente in vigore tra poche settimane, metterà in pausa un flusso commerciale da circa 10 miliardi di dollari a settimana. In un’economia come quella americana, da 550 miliardi a settimana, può sembrare una perdita gestibile. Ma non lo è.
Le aziende cinesi che oggi assemblano schede madri per computer di brand americani cercheranno sbocchi alternativi. Una parte della loro produzione sarà riconvertita per i mercati del Sud globale o dell’Asia, magari a prezzi più bassi, con una riduzione dei margini. La scheda madre venduta a 100 dollari agli americani potrà essere piazzata a 60 o a 50 ad aziende locali o a qualche nuovo partner. Sarà un brutto colpo, ma non un danno mortale. Il governo interverrà per compensare i danni alle zone produttive più colpite e per accelerare l’accesso a mercati nuovi o sottoutilizzati (lo sta già facendo, lo aveva fatto anche in passato).
Ma dall’altra parte del Pacifico, il quadro è assai più fragile.
Negli Stati Uniti, l’arresto delle importazioni dalla Cina non colpisce soltanto il consumatore finale o le singole aziende. Colpisce a cascata tutti i segmenti che si reggono su quella catena del valore: design, marketing, trasporto, retail, logistica, finanza. Le stime parlano di 40 miliardi di dollari a settimana di perdite per l’economia americana, dieci volte quelle cinesi (e senza contare le ricadute finanziarie). Perché questa differenza? La cifra non dovrebbe essere la stessa su entrambi i lati?
Di nuovo: siamo di fronte a un riflesso diretto della struttura del valore globale: ciò che conta non è solo dove si produce, ma come quella produzione è incastonata in una rete di servizi, conoscenze, attività di ricerca, progettazione, comunicazione, branding, flussi logistici e finanziari. Mentre la Cina esporta “semplici” componenti, l’America importa prodotti che sono frutto di interi ecosistemi (in gran parte ancora americani) e non ci sono, al momento, ecosistemi in grado di sostituire in tempi brevi quelli esistenti. Servono investimenti, infrastrutture, formazione. Tutte cose fragili, che vanno progettate e sostenute nel lungo termine, e che sono estremamente suscettibili alla volubilità di un personaggio come l’attuale inquilino della Casa Bianca.
L’ “altra” guerra mondiale
Mentre Trump si prepara a decurtare decine di miliardi di valore dalla propria economia, dall’altra parte del mondo si lavora non solo su presente, ma sul passato.
In questi giorni Xi Jinping è volato a Mosca per partecipare alle celebrazioni per la Vittoria della Seconda Guerra Mondiale (che per i cinesi si iscrive nel contesto della seconda guerra sino-giapponese del 1937 - 1945). L’intento è chiaro: riscrivere l’evento fondato della contemporaneità in chiave multipolare. Il passato, in geopolitica, non passa mai davvero ma è sempre una risorsa per riscrivere il presente.
Per l’Occidente la Seconda guerra mondiale è, da ottant’anni, l’evento fondativo del mondo che conosciamo: l’origine del bipolarismo, dell’ordine liberale, delle istituzioni multilaterali, del lessico della democrazia. È proprio quel racconto che Putin e Xi stanno cercando di sovrascrivere. E, a modo loro, lo stanno facendo con una coerenza che manca del tutto alle capitali occidentali e, soprattutto, all’America di Trump che anzi ha deciso esplicitamente di abiurarlo, lasciandone l’interpretazione vacante.
Il messaggio di Putin-Xi è semplice e potente: la vittoria sul nazi-fascismo e sull’imperialismo giapponese non è stata solo americana e britannica. È stata (soprattutto) sovietica e cinese. E dunque l’ordine che ne è seguito non può essere di proprietà esclusiva dell’Occidente e degli USA e deve tenere conto di Mosca, di Pechino, del Sud Globale. Deve passare da nuove istituzioni, da nuove valute, da nuovi condizioni commerciali…ed ecco dunque che la geopolitica del passato diventa anche strumento per la costruzione di ponti e alleanze nel presente, alleanze che possono servire anche a quella diversificazione economica di cui sopra.
[Ovviamente nell’ergersi a paladini della decolonizzazione “incompiuta”, sia Xi che Putin glissano su realtà storiche sconvenienti, e poco coerenti con la loro revisione, come l’imperialismo sovietico – e quello attualissimo russo in Ucraina – o la vicenda delle Due Cine e Taiwan].
Eppure se il tentativo revisionista è chiaro, di fronte alle immagini della Piazza Rossa, la convergenza sino-russa appare più che mai piena di contraddizioni.
Per i russi, l’Eurasia è una visione culturale, quasi teologica: ortodossia, spirito slavo, memoria imperiale, la Russia eterna. Nella sua profonda e atavica insicurezza, la Russia non riuscirà mai a concepire il potere in modo “moderno” e slegato da logiche di dominio territoriale. La Cina, al contrario, ha da sempre una concezione liquida e decentrata del potere e guarda al macro-continente come a una enorme piattaforma economica. Putin sogna una civiltà materiale, a Xi interessa un mercato e un network tributario. La Russia vuole influenza, prestigio, rispetto. La Cina vuole flussi, ritorni economici. Vuole ritornare alla sua storica centralità decentrata.
Nella fase attuale queste visioni possono coesistere, poiché hanno avversari comuni. Ma poi? Io credo che, per esempio, sull’Europa il nazionalismo russo di Putin e il comunismo con caratteristiche confuciane (o il capitalismo con caratteristiche cinesi) di Xi non la penseranno mai allo stesso modo, anzi. La penseranno sempre in modi opposti e non complementari. E a un certo punto le divergenze dovranno venire al pettine.
Se siete nuovi da queste parti, io mi chiamo Cesare Alemanni. Mi interesso di questioni all’intersezione tra economia e geopolitica, tecnologia e cultura. Per Luiss University Press ho pubblicato La signora delle merci. Dalle caravelle ad Amazon, come la logistica governa il mondo (2023) e Il re invisibile. Storia, economia e sconfinato potere del microchip (2024).