Lunedì il Tascabile ha pubblicato un mio lungo articolo. Parlava della politica economica di Biden e delle sue numerose letture come presunta “pietra tombale” del neoliberismo, nonché dell’ormai famigerato (perlomeno in alcuni angoli del dibattito politico ed economico ) discorso di Jake Sullivan al Brookings Institute, circa la creazione di un nuovo “Washington Consensus”.
Nell’articolo sostengo che più che una resa dei conti teorico-culturale con il neoliberismo – come molti, in area lefty, l’hanno voluto interpretare – il nuovo corso “statalista” dell’economia politica americana abbia essenzialmente a che fare con il rafforzamento del Paese per ragioni principalmente di Realpolitik. Ragioni legate soprattutto alla necessità di rafforzare la tenuta sociale interna, in vista della sfida esterna con la Cina per il mantenimento di una posizione egemonica nel sistema globale.
Come scrivo nel pezzo:
«Il recupero, economico e politico, della middle class americana, che da anni va verso derive sempre più problematiche, è, come detto, una delle prerogative più spiccate della Bidenomics. E lo è perché non sono rimaste alternative al dare una risposta all’insofferenza dei ceti medi. Se non si vuole che salti definitivamente il tappo della “più grande democrazia del mondo”, non è più prorogabile l’imperativo di calmare le acque dentro la bottiglia.»
E inoltre:
«Ma perché la prima economia al mondo decide di allontanarsi dalle idee che hanno caratterizzato gli ultimi decenni? La risposta è nella “job description” di Sullivan. Nonostante la natura del luogo in cui parlava, Sullivan non è un consulente del Tesoro, della FED o di un’altra grande istituzione finanziaria. Il suo titolo è “National Security Advisor”. Non è uomo di calcoli ed economia ma di legge e diplomazia. Il suo percorso racconta una carriera tra campagne elettorali e negoziati internazionali, tra cui l’accordo sul nucleare iraniano. Cosa ci faceva un simile personaggio al Brookings, ovvero uno dei più importanti think tank economici dell’Occidente? La risposta è che il mondo, in questi ultimi anni, è cambiato al punto che l’economia – neppure la prima al mondo (anzi, soprattutto la prima al mondo) – non può più permettersi di vivere in un regno a parte, rispetto alle preoccupazioni della sicurezza e della difesa»
Benché sia innegabile che alcuni aspetti della Bidenomics rappresentino nella sostanza anche un superamento del cosiddetto neoliberismo, lo è altrettanto che la fase attuale testimonia dell’ingenuità con cui, negli ultimi decenni, abbiamo discusso teorie e scuole di pensiero economico. Come se esse nascessero in un vuoto socio-economico e non fossero, invece, frutto di precisi circostanze storiche e di volontà politiche che coincidono, quasi sempre, con progetti e problemi di potenza degli Stati che le promuovo e fanno proprie (soprattutto quando si tratta dello Stato più potente del tempo). Il che, come racconto nel pezzo, paradossalmente vale anche per le circostanze in cui, cinquant’anni fa, emerse il neoliberismo. Ne scrivevo qualche giorno fa a proposito di inflazione, e ne scrivo nell’articolo per il Tascabile:
«Il neoliberismo in altre parole non ascese soltanto perché una ristretta cerchia di occidentali privilegiati decise di arricchirsi. Ascese poiché, in primis, la politica americana riconobbe la pericolosità della crisi economica degli anni Settanta e la sfida che essa rappresentava per l’egemonia e la sicurezza degli Stati Uniti. Nel momento in cui la “vecchia” ricetta keynesiana non si dimostrò in grado di dare soluzioni adeguate alla crisi, Washington decise di affidarsi a una nuova “medicina” (la metafora del neoliberismo come medicina amara ma efficace era ampiamente circolata all’epoca, a cominciare da Milton Friedman). In primis per estendere la longevità della sua influenza economica e finanziaria nel pieno della Guerra Fredda. L’ascesa del neoliberismo fu dunque anche, se non soprattutto, un riflesso di una svolta nelle politiche di potenza degli Stati Uniti. La stessa cosa si può dire oggi della Bidenomics. Se essa dovesse riuscire ad affermarsi – cosa non scontata – lo farà principalmente perché sembra fornire una risposta a un rischio, reale o percepito, di declino del potere americano, palesato da una serie di indicatori interni ed esterni».
In ultima analisi credo che ci troviamo in una fase interessante, in cui appare un modo molto chiaro (perlomeno a chi vuole vedere) quale sia la vera natura della complessa relazione tra Stati e mercati, anche nelle cosiddette democrazie liberali.
O per dirla con un meme.