Buon martedì e benvenuti a una nuova breve di Macro.
L’esercito Moneyball
Partiamo subito con un personaggino niente male, ovvero lui.
Questo collezionista di camicie hawaiane da svariate migliaia di dollari si chiama Palmer Luckey. Forse vi ricorderete di lui come giovanissimo, eccentrico fondatore di Oculus Rift, l’azienda che produceva occhialoni per la realtà virtuale che Luckey lanciò, nel 2011, a 18 anni, dal garage di Palm Beach dei genitori e che, tre anni dopo, vendette a Facebook per la cifra di 2 miliardi.
Cosa ne ha fatto Luckey di tutti quei soldi, vi starete chiedendo? Ebbene, nel 2017, si è buttato nel settore degli armamenti e ha fondato Anduril*, una “start-up” che si presenta con tutto l’apparato di levigatezza estetico-comunicativa tipico delle aziende tech della Silicon Valley. Con la sola differenza che Anduril non produce pannelli solari o borracce intelligenti, bensì droni da guerra.
Conoscevo già Anduril ma di recente sono incappato in un video del Wall Street Journal che ho trovato illuminante per almeno tre motivi. Il primo: il candore con cui Luckey presenta software e macchine per uccidere come se fossero nuove app per incontri o l’ultimo ritrovato tech del momento. Sarò fatto male, o fuori sincrono coi tempi in cui viviamo, ma credo che un’epoca, e una società, che produce individui che parlano di armi in un modo simile sia ormai a un passo dalla totale dissoluzione etica.
Superato l’effetto straniante di sentire parlare di droni militari da un tizio con mallet e camicia hawaiana, il video è interessante per ulteriori due ragioni. La prima perché racconta come l’ecosistema delle forniture militari USA sia giunto, negli ultimi decenni, a un livello di consolidamento tale per cui oggi esistono solo cinque enormi contractors in grado di “soddisfare” le richieste dell’esercito americano (Lockeed Martin, Boeing, RTX, Norton Grunman, General Dynamics).
L’altro motivo è che il video spiega in che modo Anduril punti a spezzare questo oligopolio, attraverso una strategia colloquialmente nota come Moneyball military. Qualcuno ricorderà Moneyball, il film, tratto da un libro di Michael Lewis, del 2011 con Brad Pitt nei panni di un allenatore di baseball che scova giocatori sottovalutati e poco costosi utilizzando algoritmi e statistiche. Ecco: qualcosa di simile lo propone anche il business model di Anduril, la cui idea è di sostituire una politica di armamenti basata su un esiguo numero di mezzi superevoluti, adatti però solo a pochi scenari bellici, con un modello basato su una proliferazione di mezzi molto meno costosi ma più versatili, numerosi e facili da schierare in battaglia (qui si può scaricare la tesi che per prima propose il concetto, scritta dall’attuale Chief Strategy Officer di Anduril).
In sintesi la Moneyball military appare come una proposta di guerra “a basso costo” che, personalmente, non credo possa portare a nulla di buono. La Storia dimostra che più le armi diventano economiche, spendibili e rimpiazzabili e maggiori sono gli incentivi a utilizzarle in modo indiscriminato e intensivo. Uno dei freni al ritorno della “guerra totale” (il tipo di guerra che coinvolge l’intero apparato industriale dello Stato nello sforzo bellico e che, a oggi, si è combattuta soltanto nelle due guerre mondiali) è proprio il fatto che le attuali tecnologie militari avanzate non siano, dal punto di vista produttivo-industriali, particolarmente scalabili. Una caratteristica che personalmente preferirei che le armi moderne continuassero ad avere.
* qualcuno avrà riconosciuto nel nome Anduril, il nome della spada di Aragorn de Il Signore degli Anelli.
Batteri e terre rare
Asianometry è uno dei migliori canali YouTube in merito alle grandi questioni tecnologiche del nostro tempo. In particolare si occupa in modo molto approfondito e informato dell’industria dei semiconduttori (è perciò stata una delle maggiori fonti per almeno due capitoli del mio nuovo libro).
In un recente video apparso sul canale, tuttavia, non si parla di chip, bensì di come estrarre “terre rare” (componenti fondamentali per l’elettronica e tutto il comparto delle batterie) dai composti minerali in cui sono “imprigionate”, tramite l’utilizzo… di batteri.
Il video è interessante in primis perché chiarisce, a chi ancora non lo sapesse, come il termine “terre rare” sia fuorviante. Le “terre rare” non sono elementi rari nell’accezione in cui lo sono certi metalli preziosi. Sono anzi piuttosto comuni e disseminate in lungo e in largo per la crosta terrestre. Il fatto è che, all’interno dei composti minerali, sono estremamente rarefatte, cioè si ritrovano in piccolissime percentuali mescolate ad altri elementi. Da qui l’idea di utilizzare batteri in grado di “assorbire” tali elementi in modo da separare, con un processo relativamente naturale, le terre rare dal resto.
Oggi questo processo di raffinazione viene svolto con componenti chimici – acidi e solventi – altamente inquinanti, al punto che, in rapporto alla quantità di materiale “finito”, il processo di raffinazione delle terre rare è tra i più inquinanti al mondo. In particolare in Cina l’industria – inclusa la fase di estrazione dei minerali – è già stata responsabile di diversi, gravi dissesti ecologici. Una soluzione alternativa agli attuali sistemi di estrazione e lavorazione non sarebbe dunque solo estremamente benvenuta ma, potenzialmente, anche in grado di mettere in discussione il primato cinese nel campo, il che avrebbe importanti ripercussioni anche geopolitiche, visto che tale primato è una delle maggiori leve di cui la Cina dispone per condizionare value chain di industrie fondamentali per la transizione energetica. Per il resto della spiegazione vi rimando al video.
Virgolettati ballerini
Piccola digressione fuori dal seminato dei soliti argomenti “macroscopici” e globali di Macro per segnalare questo articolo del Post che parla dell’assurda abitudine dei giornali italiani di usare virgolettati non chiari o non attribuiti e, in diversi casi, inventati di sana pianta; prassi per cui, ogni giorno, sui quotidiani italiani leggiamo, come fosse una cosa normale, espressioni quelli “voci di corridoio dicono che….”, “tra i leader si sussurra…”, “Meloni avrebbe risposto..:” e altre formulette che non passerebbero al vaglio di nessuna redazione di nessun paese occidentale, mentre nel nostro sono, incredibilmente, considerate accettabili e perfettamente normali.
Come scrive Il Post:
Quando Matteo Renzi era al culmine della sua carriera politica, come segretario del PD e come presidente del Consiglio, venne usata spesso sui giornali una formula giornalistica un po’ ambigua ma di grande successo: «Renzi ai suoi». Era una trovata che già era stata usata sporadicamente in passato per altri leader ma che in quella fase divenne frequentissima, e che consentiva ai cronisti di riportare tra virgolette una frase di Renzi specificando che non era niente di ufficiale, bensì una confidenza che Renzi avrebbe fatto ai suoi, cioè collaboratori o parlamentari più fedeli. Un modo insomma per dare alle parole riportate una dimensione a metà tra l’ufficialità e l’informalità, e alimentando tuttavia il dibattito politico e mediatico.
Da molti anni sostengo che sia una prassi surreale e dannosissima non solo per la qualità dei giornali che leggiamo ma per il senso di realtà degli italiani e per la separazione dei ruoli tra giornalismo e potere. Ne avevo anche scritto, tangenzialmente ad altri argomenti, la bellezza di dodici anni fa in una rubrica che tenevo su Rivista Studio.
Non riesco a ricordare l’ultima volta che su un quotidiano italiano ho trovato una storia che mi abbia fatto pensare “questa voglio proprio leggerla”. Spesso anzi gli spunti più interessanti […] vengono costretti nello spazio di poche righe per dare pagine e pagine […] all’estenuante “feuiletton” della cronaca parlamentare, da cui apprendiamo cose utilissime e fondamentali tipo se il tale politico quella mattina alla buvette ha preso un macchiato o un cappuccino (davvero, sono stati versati oceani d’inchiostro, ormai, sui caffé di D’Alema & co.). In un paese ammalato di cattiva politica, la familiarità col Palazzo sembra peraltro essere la sola strada maestra per diventare una “firma” nota al grande pubblico.