Mancano pochi giorni all’inizio della lunga (durata: due mesi e sette fasi) tornata elettorale indiana in cui si eleggeranno i 543 membri del Lok Sabha (tradotto: Casa del popolo), il parlamento indiano. Si tratta delle elezioni più ampie nella storia dell’umanità: 960 milioni di persone (su una popolazione di 1,4 miliardi) hanno diritto a parteciparvi.
L’esito al momento appare scontato. I sondaggi danno l’uscente Narendra Modi, del partito nazionalista-populista Bharatiya Janata Party (BJP), destinato a una specie di plebiscito con il 64% delle preferenze. Sarebbe il terzo mandato consecutivo per Modi, al governo dal 2014 e considerato in patria come il “miglior primo ministro di sempre”. E questo nonostante, nel corso dei suoi dieci anni al governo, non siano mancate le controversie. Soprattutto preoccupano la crescita d’intolleranza e settarismo, gli innumerevoli episodi di violenza nei confronti delle minoranze (soprattutto musulmane) del paese, perpetrati dai suprematisti hindu che sostengono Modi.
Questo articolo tuttavia non si occupa delle delicate questioni domestiche dell’India ma della postura del paese all’esterno e, come spesso accade, per capire che ruolo uno Stato intenda “giocare” sulla scena internazionale non serve altro che analizzare i suoi piani per quella interna. Nel caso dell’India, la popolarità di Modi e del BJP si regge principalmente sulla promessa di una ruggente crescita economica. È sul miraggio del benessere che Modi ha costruito l’ampiezza del suo consenso tra gli strati medi della popolazione (per le sue radici bisogna invece guardare, come detto, nel suddetto suprematismo).
Uno dei cavalli di battaglia elettorali del premier è il superamento dei 10 triliardi di PIL entro il 2032 (attualmente l’India non arriva a 4). Una triplicazione dei pani, dei pesci e delle rupie che difficilmente si verificherà nei tempi e nelle dimensioni previste da Modi, come del resto già accaduto con precedenti dichiarazioni sullo stesso tono. Nel 2018 il leader aveva promesso che il PIL del paese avrebbe toccato quota cinque miliardi già nel 2022, salvo poi dare la colpa (in modo non del tutto ingiustificato) al covid per il traguardo mancato.
A ogni modo: è chiaro che la crescita economica, autentica o percepita, è la trave portante del successo di Modi. E quando è l’economia a guidare la politica interna di un paese, quasi sempre il risultato è una robusta dose di realismo in quella esterna. L’India non fa eccezione. Consapevole di non essere ancora una super-potenza, l’India sta cercando di proiettare l’immagine di un paese che prende decisioni in tema di politica internazionale non sulla base di “valori” non negoziabili ma, volta per volta, con pragmatismo e con un occhio ai costi-opportunità di ogni scelta.
E così Modi non si fa problemi a mostrarsi sensibile alle attenzioni di Biden e a discutere con lui questioni riguardanti la costituzione di un sistema di sicurezza nell’Indo-Pacifico, e persino a condurre esercitazioni congiunte nell’Oceano Indiano con la marina americana, ma non è disposto a concedere a Washington una dichiarazione di alleanza formale, soprattutto se in chiave esplicitamente anti-cinese. Come contorno ai discorsi geopolitici con Biden, Modi ha approfittato della rinnovata “passione” della Casa Bianca per l’India – una passione che ha ovviamente il contenimento della Cina al centro – per contrattare un canale privilegiato con le aziende più importanti della Silicon Valley. Alle quali, nel corso di un incontro ufficiale svoltosi a Washington lo scorso anno, ha fatto presente l’interesse e l’apertura del suo paese a ospitarne le attività. Come si diceva: l’economia al centro del villaggio.
Modi non ha tuttavia mai acconsentito, come gli ha invece chiesto in modo esplicito Biden, a condannare esplicitamente l’invasione russa dell’Ucraina e a smettere di acquistare petrolio da Putin. Anzi: ha approfittato, fin dalle prime settimane di conflitto, del forte calo del prezzo del petrolio russo per cominciare a comprarlo in quantità inaudite. Fino al 2022 l’India, a dirla tutta, non comprava neanche un barile di petrolio da Mosca, a causa degli alti costi di trasporto, mentre nel 2023 ne ha importati quasi 1,5 milioni di barili al giorno.
Modi sa di potersi (per ora) permettere queste “geometrie variabili” poiché, per gli Stati Uniti, l’India rappresenta un pezzo troppo importante nel mosaico dell’Indo-Pacifico. Il premier indiano inoltre rivendica il fatto che ciò che accade in Europa è di limitato interesse per la sua regione del mondo. Tuttavia è anche vero che, sebbene si sia rifiutata di rettificare le sanzioni occidentali contro la Russia, l’India ha cercato di far arrivare a Putin il suo disappunto per la guerra ucraina in altre maniere. Per esempio esprimendosi per la prima volta nella storia contro Mosca nel corso di una votazione alle Nazioni Unite. Anche rispetto alla Russia, tuttavia, finora è prevalso il pragmatismo. Storicamente l’India infatti dipende dalla Russia per una fetta consistente dei suoi armamenti. Quello tra produzione bellica russa e difesa indiana, è un rapporto che risale alla Guerra Fredda, quando l’India era, a tutti gli effetti, il primo partner economico e politico dell’URSS tra i paesi della metà “non comunista” del mondo.
Nonostante le convenienze economiche di questi accordi, l’India sta con prudente pragmatismo cercando di uscire da questo quadro di dipendenze. E benché, nella visione multipolare del mondo in cui crede Modi, la Russia sia considerata una grande potenza, con una legittima aspirazione a una propria sfera di sicurezza, agli indiani certo non può sfuggire che se quello di Putin è neo-zarismo, ebbene dal “piano Duhamel” in giù, lo zarismo non ha mai concepito l’India come partner ma come vassallo se non come preda.
In ultimo c’è ovviamente la Cina. Dopo gli incidenti nella valle del Galwan di quattro anni fa, in cui persero la vita non meno di 20 soldati indiani, le relazioni tra Cina e India sono ai minimi storici. Se fino al 2020, i sondaggi indicavano che la prima preoccupazione degli indiani era il Pakistan, oggi la Cina è al numero uno nel ranking delle inimicizie. L’India attuale non vede più nella Cina un rivale da rispettare, purché a sua volta rispettoso degli interessi indiani, bensì un avversario sistemico, con ambizioni sempre più difficili da arginare e relazioni, dal punto di vista indiano, pericolose con il Pakistan.
Per questo negli ultimi anni, l’India è divenuta più proattiva nell’ambito del cosiddetto QUAD, la quadrilaterale sulla sicurezza dell’indo-pacifico a cui partecipano USA, Giappone, Australia e appunto India. E tuttavia allo stesso tempo, Modi continua a rifiutare l’equiparazione della suddetta a una specie di “NATO asiatica” e, sebbene non abbia aderito alla Belt and Road Initiative cinese, l’India non ha mai messo in discussione la sua partecipazione alla Shanghai Cooperation Organization.
Anche in relazione alla “questione cinese”, Modi punta a trasformare quanto più possibile un problema geopolitico in un’opportunità economica. Nel clima di crescente sfiducia internazionale che aleggia sopra Pechino, l’India sta cercando, come altri paesi dell’Indo-Pacifico, di cavalcare il cosiddetto friendshoring, ovvero di sostituirsi alla Cina in alcune filiere strategiche e ad alto contenuto tecnologico. E così mentre Apple, attraverso la taiwanese Foxconn, inaugura in India stabilimenti di manifattura di iPhone per diversificare la produzione dalla Cina, Modi punta (ma non è affatto semplice) a infilare l’India anche nel grande gioco contemporaneo: ovvero la riorganizzazione della catena del valore dei semiconduttori (il tema, vi ricordo, di cui parla il mio nuovo libro, in uscita a maggio).
L’India insomma ha la necessità di contenere la Cina ma non vuole neppure rischiare pericolose escalation, specie ora che la rivalità sino-americana, e le difficoltà cinesi, le forniscono un vantaggioso terreno negoziale, non solo rispetto ai grandi business occidentali ma anche in contesti come il gruppo dei BRICS e il cosiddetto “global south”, dove l’India punta a promuoversi come rappresentante alternativo alla Cina.
Come ha sottolineato Walter Ladwig III in un bel podcast sull’argomento, la politica estera di Modi tuttavia non è solo ispirata dall’economia e neppure è una mera copia carbone della strategia di non allineamento tenuta dal paese durante la guerra fredda. C’è anche un livello di analisi e di proposta culturale e ideologica – genuino o forse soltanto retorico – che tiene insieme l’attuale strategia geopolitica indiana e l’idea che l’India ha del proprio ruolo nel mondo (e con esso la tradizione di suprematismo hindu da cui proviene Modi).
Tale proposta ha a che fare con l’idea che India, e la filosofia hindu, abbiano una missione e un preciso destino storico da assolvere; ovvero portare un superiore livello di armonia ed equilibrio negli affari globali del presente e del futuro. Questa idea è stata in bella vista durante il recente (settembre 2023) G20 ospitato da New Dehli, con lo slogan “one planet, one family, one future”. Forte del suo enorme patrimonio filosofico e culturale, l’India si è voluta presentare come un faro di saggezza e moderazione nel mondo e come un importante ago della bilancia negli affari globali. Ed effettivamente è innegabile che lo sia. Lo è per posizione geografia, per importanza strategica, dimensioni demografiche e prospettive future.
E proprio poiché si concepisce come “ago della bilancia”, l’India rivendica la necessità di mantenere una propria autonomia strategica e il diritto alle proprie “geometrie variabili” in tema di alleanze. L’opposto, ovvero un’India troppo schierata in un campo o nell’altro, romperebbe infatti delicati e pericolosi equilibri.
È una “bella” retorica. Tuttavia ci sono due considerazioni da fare. La prima è che, al pari di quella occidentale, di quella cinese e di quella russa, essa affonda le radici in quel tipo di auto-narrazione sugli Stati-civiltà e i loro “grandi destini” che oggi va pericolosamente per la maggiore e che, sempre più spesso, si innesta su nazionalismi e suprematismi (in questo caso hindu) tossici, anacronistici e poco razionali (ma non per questo inautentici o privi di conseguenze). Si tratta di visioni della storia e del suo senso che postulano l’eccezionalità di una singola traiettoria e dunque sono per natura mutualmente esclusive e destinate a scontrarsi, anche quando, come nel caso dell’India, predicano “saggezza” ed equilibrio.
L’altra considerazione da fare l’ha fatta, qualche mese fa, a G20 appena concluso, Shruti Kapila sul News Statesman:
Proprio perché non è la Cina, l’India oggi viene considerata un perno che non solo riorienterà ma aiuterà a superare la policrisi globale dei nostri tempi. […] Sedersi tra Cina e America può conferire all’India importanza strategica, ma tale posizione è anche piena di rischi. Potrebbe continuare ad acquistare armi dalla Russia mentre conduce esercitazioni militari con l’America nell’Indo-Pacifico, ma alla fine l’India può solo rinviare, non controllare, quando la sua multipolarità transazionale giungerà al termine. E la decisione su quando arriverà quel momento potrebbe dipendere da altri.
Il senso “geopolitico” del programma spaziale indiano.
Un lungo testo sulle origini del suprematismo hindu e sulla figura del suo profeta Vinayak Savarkar.
La puntata del podcast di Global Security Briefing, con ospite Walter Ladwig III, che menziono nell’articolo.
Off topic logistico: un mio articolo per Appunti, la newsletter di Stefano Feltri, riguardo agli impatti della crisi del Mar Rosso per i porti italiani e più in generale per la struttura dello shipping globale.