Cosa resta della caotica settimana di Open AI? Oltre al “dentro - fuori - dentro” di Sam Altman, rimane il cambiamento di una parte del CdA, con l’allontanamento dei membri che avevano votato per il licenziamento di Altman e l’ingresso di nuove figure. Tra le quali spicca un nome: Larry Summers.
Chi segue le vicende economiche e/o americane, avrà già sentito parlare di Summers, una delle figure più influenti degli ultimi decenni. Per tutti gli altri ecco un’introduzione. Summers è un economista di 69 anni (li compie il 30 novembre), discendente da una dinastia di economisti. Lo erano il padre e la madre e soprattutto gli zii, premi Nobel, Kenneth Harrow e Paul Samuelson, fondatore della cosiddetta “scuola neo-keynesiana”.
Anche Summers è considerato un neo-keynesiano ma, rispetto ad altri esponenti come Krugman e Stiglitz (suo rivale da tempo), si colloca più a “destra”. È la sua carriera a dirlo. Partiamo dagli studi. Summers si laurea all’MIT e si perfeziona ad Harvard, sotto il nume di Martin Feldstein, Repubblicano, consigliere di Reagan, tra i pochi economisti degli anni Ottanta a predicare rigore fiscale persino più del mainstream neoliberal dell’epoca.
Feldstein fornì il primo assaggio di Washington a Summers che, non ancora trentenne, si ritrovò tra gli advisor di Reagan. Era il 1983, quarant’anni fa, e da allora Summers non si è mai allontanato un giorno dal potere. Dopo l’esperienza con Reagan e un periodo di insegnamento ad Harvard, nel 1991 Summers venne nominato capo economista della Banca Mondiale e, dopo nemmeno due anni, Bill Clinton lo volle come sottosegretario al tesoro con delega agli affari internazionali. In quel ruolo Summers si ritrovò per le mani un dossier colossale: la ristrutturazione economica della Russia post-sovietica.
È accertato che Summers fu uno dei maggiori sostenitori della necessità di somministrare la cosiddetta “shock therapy” a Mosca: ovvero la drastica liberalizzazione del mercato e la privatizzazione, per manciate di rubli, degli enormi apparati industriali ereditati dall’URSS. In assenza di un assetto istituzionale adeguato, in pochi anni, tali trasformazioni risultarono nel collasso del sistema sociale russo, nell’ascesa di una potente oligarchia e, in ultimo, dello stesso Putin.
Summers e i suoi vennero soprannominati Harvard boys, una citazione dei Chicago boys che supervisionarono le liberalizzazioni post-Allende nel Cile degli anni Settanta. All’epoca non si immaginavano le conseguenze della gestione russa degli Harvard boys e così Summers venne “premiato” con la promozione a Segretario del Tesoro, nel 1999, a metà del secondo mandato di Clinton. Anche in quella carica Summers si segnalò per iniziative che poco si conciliavano con l’etichetta di neo-keynesiano. Una su tutte: il Gramm–Leach–Bliley Act con cui, nel 1999, il Dipartimento del Tesoro propose di eliminare quanto restava della separazione (sancita durante la Grande Depressione) tra diverse tipologie di istituti bancari. Dopo il passaggio della legge, banche commerciali e banche d’investimento poterono fondersi e/o ibridare i reciproci servizi all’interno di nuovi prodotti finanziari e così via. La deregolamentazione permise al settore finanziario una libertà senza precedenti e soprattutto consentì di offrire strumenti finanziari avanzati a un numero enorme di risparmiatori (e del resto la mobilitazione del risparmio era uno degli obiettivi espliciti della legge). Un effetto collaterale fu il proliferare dei cosiddetti “derivati”, pacchetti finanziari che mescolavano risparmio e assicurazioni, rischi e collaterali, e che via, via gonfiarono una bolla con epicentro l’edilizia e i mutui. Fin da subito tale mercato fu oggetto dello scetticismo di politici ed economisti e fu Summers a spendersi di persona per tenerlo al riparo dai tentativi di regolamentazione. Una scelta che, a posteriori, nel 2010, gli ha rinfacciato persino il suo ex “datore di lavoro”, Bill Clinton.
Nonostante il suo legame con Harvard, storica roccaforte neo-kenesyana, le mosse di Summers tra anni Novanta e Zero lo collocavano più vicino al laissez faire della Scuola di Chicago che a Keynes. Nel novembre 2006 è stato lo stesso Summers ad ammetterlo. In occasione della morte di Milton Friedman, egli scrisse un elogio dal titolo “The Great Liberator”, in cui tra le altre cose affermava: “any honest Democrat will admit that we are now all Friedmanites” (“qualunque Democratico onesto deve ammettere che oggi siamo tutti friedmaniti”).
Nel 2006, una simile frase era intesa a celebrare il trionfo della cosiddetta “terza via”, la sinistra clinton-blairiana, di cui Summers è stato uno dei grandi ispiratori in ambito accademico e politico. Ma dato che le vittorie hanno molti padri mentre le sconfitte sono orfane, un anno più tardi, accreditarsi quella stagione divenne sinonimo di suicidio politico. L’esplosione della bolla dei subprime, e la crisi globale conseguente, avrebbero spedito in Purgatorio innumerevoli protagonisti dell’economia politica americana degli anni ‘90. Ma non Summers. Al quale, anzi, il neo-eletto Obama conferì il titolo di direttore del National Economic Council e l’incarico di supervisionare il piano di salvataggio dell’economia USA post-2008. Anche in questo caso la gestione di Summers raccolse un mix di plauso e scetticismo. Da un lato, tramite le potentissime relazioni che aveva in entrambi i mondi, Summers mise d’accordo i piani più alti di Washington e di Wall Street su come mettere la situazione in sicurezza. Dall’altro fu un memo di Summers a suggerire di ridurre di un terzo (da 1,8 trilioni a 1,2) l’entità del pacchetto di stimoli inizialmente proposto, nonché a opporsi all’idea di investirne una parte nell’ammodernamento delle infrastrutture pubbliche USA (tema ancora oggi molto sentito in America). Due scelte che, a posteriori, sono state molto criticate e in cui, per l’ennesima volta, Summers è parso più vicino alla concezione neoclassica del “bad deficit” del suo maestro Feldstein che a Keynes.
A partire dal 2009, Summers ha iniziato una manovra di distanziamento dalle tesi da lui sostenute nei decenni precedenti. Cavalcando l’immagine di salvatore dell’economia reale fornitagli da Obama, ha lamentato – proprio lui! – la mancanza di sorveglianza del mercato dei derivati al tempo della grande crisi. Più di recente, ha persino espresso preoccupazione per il pessimo stato delle “infrastrutture”. È anche così che progressivamente Summers si è rifatto un’immagine da economista moderato e di centro, lontana da quello che racconta il suo passato.
A propria discolpa Summers ha citato proprio Keynes. Il quale, quando qualcuno lo accusava di scarsa coerenza, notoriamente rispondeva: “se le circostanze cambiano, io cambio le mie opinioni. Lei invece cosa fa?”. Un ambito in cui Summers non sembra avere cambiato idea, tuttavia, è proprio la finanza. A suo dire, ogni tentativo di stringere laccioli al settore bancario in realtà ha l’effetto di aumentare e non diminuire i rischi insiti nel sistema (il che non è del tutto falso) e per questo Summers è stato uno dei principali oppositori alle regolamentazioni del Fintech. Non solo. È anche stato uno dei pochi economisti davvero influenti a prendere sul serio le criptovalute. Una posizione che si potrebbe spiegare con il fatto che, nel 2016, DCG, uno dei principali fondi di venture capital nell’ambito crypto, gli ha offerto una posizione da advisor dietro lauto compenso.
Sarebbe tuttavia ingenuo credere che un uomo col potere di Summers si presti a sostenere idee, o tecnologie, in cui non crede affatto solo per tornaconto personale. Non fosse altro perché, al suo livello, le occasioni di accumulare rendite e influenza sedendosi in questo o quel board non mancano (come si è visto in questi giorni). Le sue posizioni in merito alle crypto, che ha definito più volte “rivoluzionarie”, vanno quindi considerate riflesso di una genuina opinione in merito. E tuttavia bisogna registrare come, nel frattempo, numerosi attori nell’ambito crypto, inclusa DCG, siano finiti in bancarotta o smascherati come frodi. Commenti di Summers? Non pervenuti.
Negli ultimi anni, Summers si è molto esposto per sostenere il settore tech, anche nelle sue forme più radicali e sperimentali, come appunto le crypto. In occasione del recente e clamoroso crack di Silicon Valley Bank, Summers si è speso per difendere la banca, dichiarando che il mercato dell’innovazione, e il venture capital che lo sostiene, sono per natura sottoposti a rischi maggiori e, perciò, meritano una maggiore tolleranza, morale e materiale, quando le cose vanno male. Una posizione che, aldilà dei numerosi conflitti d’interesse di Summers (che siede in innumerevoli CdA del tech), ha una sua sensatezza. Ma che ci ricorda anche come Summers abbia speso dato prova di aderire a una mentalità del tipo “meglio chiedere scusa che permesso”, nonché a una visione per cui esistono alcune forze fondamentali dell’innovazione (finanziaria e/o tecnologica) la cui capacità di produrre ricchezza e/o progresso giustifica i potenziali rischi e problemi che da esse possono sorgere. Forze fondamentali così importanti da dover essere non solo lasciate libere di agire ma anche “salvate”, socializzandone le perdite, quando le cose vanno male. Tra queste forze Summers ha, di recente, reclutato anche la AI. Stando alle sue dichiarazioni degli ultimi mesi: la AI “produrrà enormi benefici”, “paragonabili alla stampa, all’elettricità e al vapore”… anche se, certo, c’è da aspettarsi qualche effetto collaterale nell’ambito del lavoro, “soprattutto per quanto riguarda il lavoro cognitivo”.
Come ho cercato di mostrare, la grande abilità di Summers è stata di sopravvivere a diverse stagioni politiche, a numerosi scivoloni e alle conseguenze, sovente colossali e disastrose, dei rischi che si è preso. Il tutto riuscendo a preservare, presso il grandissimo pubblico, un’immagine da economista tutto sommato non troppo radicale, da “vecchio saggio”, che tuttavia non regge a un riesame della sua carriera. Sicuramente una simile figura, connessa ai massimi livelli della politica, dell’accademia e della finanza, e con una notevole esperienza nel campo della regolamentazione, farà comodo a OpenAI, specie in un momento in cui essa si ritrova a essere sempre più di frequente oggetto di scrutinio pubblico e politico.
Tuttavia vale la pena chiedersi se un personaggio come Summers possa davvero essere presentato, in buona fede, come garante del fatto che OpenAI porterà avanti il suo sviluppo, e il suo dispiegamento sul mercato, con la prudenza e la coscienza che richiede il notevole potenziale di disruption sociale ed economica della tecnologia che offre.
Permettetemi di avere dei dubbi.
La politica russa di Summers e dei cosiddetti “Harvard Boys” raccontata e commentata in tempo (quasi) reale da questo lungo pezzo del 1998 di The Nation.
Un pezzo del New Yorker del 2009, che si legge come un episodio di House of Cards, sull’azione del gabinetto anti-crisi capitanato da Summers.
Consiglio banale: sulla crisi del 2008 e sul ruolo di Summers prima, durante e dopo, il libro fondamentale resta questo.
Gli anni in cui Summers fu rettore di Harvard sono gli stessi in cui esplose il caso Facebook, con le accuse di plagio dei gemelli Winklevoss a Marc Zuckerberg. Summers si è così ritrovato, nel ruolo di se stesso, in una scena del film The Social Network. Eccola:
Non ne parlo nel pezzo perché portava troppo fuori strada ma credo dica molte cose sui tempi in cui viviamo il fatto che l’unica volta in cui Summers – più o meno direttamente coinvolto nel caos russo e nella più grande crisi finanziaria del dopoguerra – ha pagato caro un errore (dovette dimettersi da Harvard) sia stata per un’uscita infelice sulla parità di genere. Ecco la storia.
Infine un altro celebre scivolone di Summers: i famigerati “Summers memo”, ovvero quando, da capo economista della banca mondiale, Summers firmò (a seconda delle occasioni, si è in seguito giustificato sostenendo che si trattava di dark humor e in altri di non aver letto il contenuto del memo prima di firmarlo) un documento interno che conteneva frasi tipo:
”I think the economic logic behind dumping a load of toxic waste in the lowest wage country is impeccable”
”I've always thought that under-populated countries in Africa are vastly UNDER-polluted, their air quality is probably vastly inefficiently low compared to Los Angeles or Mexico City”
Su Wikipedia trovate il resto del testo.