Macro | ⚛️ L'età di Oppenheimer ⚛️
Che mondo è il mondo in cui esiste un'arma "distruttrice di mondi"?
Eccetto in Italia (dove è stata rinviato per ragioni assurde), oggi esce in quasi tutto il mondo Oppenheimer (trailer), film di Nolan sul “padre dell’atomica”. Colui che di fronte al primo fungo atomico, in uno degli attimi più drammatici della Storia, pensò al verso di un poema indiano del I secolo d.C.
Non è difficile immaginare cosa abbia spinto un regista concettoso e geometrico come Nolan verso Oppenheimer. Non ho ancora visto il film ma immagino che giocherà sulle asimmetrie simmetriche del personaggio: l’appassionato di poesia che imbocca il cammino dell’atomo, il sofisticato collezionista d’arte che collabora al progetto dell’Apocalisse etc. Il tutto con l’obiettivo – molto nolaniano – di spremere tutto il “sublime” possibile dal balletto tra umanista e scienziato, tra slancio prometeico e abisso nichilista.
E il soggetto, in effetti, si presta. Non solo perché la figura di Oppenheimer ha – caso raro – una profondità adeguata al suo ruolo nella Storia ma anche perché il “sublime atomico” occupa un posto di rilievo nella sensibilità estetica del mondo moderno*.
Tuttavia non siamo qui per discettare di estetica ma per ricordare l’eredità, per così dire, “materiale” di Oppenheimer, del Progetto Manhattan e di Trinity, il primo test atomico condotto il 16 luglio 1945 a Los Alamos. Siamo qui per parlare degli effetti, quasi incalcolabili, dell’invenzione della bomba atomica e del suo semplice esistere nel mondo da quasi 80 anni.
Hiroshima, Europa
La più immediata conseguenza di Los Alamos fu lo sgancio, nemmeno un mese più tardi, di due atomiche su Hiroshima e Nagasaki, a oggi gli unici ordigni di questo tipo diretti contro esseri umani. Un evento epocale, e non solo perché coincise con la fine della Seconda Guerra Mondiale.
La decisione di bombardare fu di Truman, nonostante le obiezioni di numerosi scienziati coinvolti nel Progetto Manhattan, incluso Leo Szilard, il primo a ipotizzare la possibilità di una “reazione nucleare a catena”, cioè il principio “base” dell’atomica (per chi non crede nel potere auto-avverante della fantascienza: pare che Szilard ebbe l’idea di un’ “arma atomica” leggendo La liberazione del mondo di H.G. Wells).
Nell’immediato, la scelta di Truman venne giustificata col fatto che una guerra convenzionale col Giappone avrebbe causato un numero molto più alto di morti. Ricostruzioni più recenti contestano questa tesi, sostenendo che in realtà gli Stati Uniti sapessero di una imminente volontà di resa del Giappone.
Ciò ha rinvigorito la “famosa” teoria secondo cui il simbolico destinatario delle bombe fosse, in realtà, Stalin. Con l’Armata Rossa schierata sul fronte orientale europeo, Truman contava sullo “spettacolo” dell’atomica per “contenere” le pretese sovietiche in Europa. Da subito fu dunque la disponibilità dell’atomica a sostanziare il ruolo dell’America come garante della sicurezza europea (il cosiddetto “nuclear umbrella”, tra i presupposti della NATO), assicurando così la dipendenza del Vecchio Continente dal Nuovo non solo dal punto di vista economico ma anche militare e geopolitico. Fu questo un enorme, quanto poco discusso, “effetto collaterale” della bomba.
Senza di essa, le relazioni atlantiche avrebbero preso, se non una piega (quella era inevitabile), sicuramente una ineluttabilità diversa.
Planetarizzazione atomica
Nel 1949, tuttavia, l’Unione Sovietica entrò a sua volta in possesso dell’atomica. Anzi, superò presto, per numero di testate e megatoni totali, l’arsenale americano (la bomba più potente mai testata, la Tsar Bomba del 1961, è sovietica). Si innescò una corsa, quantitativa e qualitativa, agli armamenti che portò il numero di testate presenti sul pianeta a superare le 70mila unità a metà anni Ottanta (oggi il numero è sceso a circa 12mila). Molte di esse erano – e sono – ordigni capaci di vaporizzare intere città in pochi secondi.
Nel momento in cui smise di essere un’esclusiva degli Stati Uniti, l’atomica cambiò per sempre la natura della geopolitica americana. Per la prima volta gli Stati Uniti vivevano in un mondo in cui il loro “splendido isolamento” su un’altra placca continentale, non era più garanzia di intoccabilità. L’atomica contribuì alla definitiva “planetarizzazione” delle relazioni internazionali, per cui di fatto nessuna parte del mondo poteva più dirsi al riparo dalle azioni di qualunque altra.
L’atomica e le responsabilità insite nel protettorato della NATO gettarono, per la prima volta, l’America davvero nella “mischia della Storia” (soprattutto di quella europea). La cultura americana ne uscì profondamente trasformata. O forse la parola giusta é: traumatizzata. La paranoia della bomba ebbe un profondo impatto sull’arte, la letteratura e, in genere, l’immaginario degli Stati Uniti. Mentre oggi ancora risuona, e rimane per fortuna senza risposta, la domanda posta da De Gaulle a Kennedy nel 1961: «Davvero lei sacrificherebbe New York per Parigi?».
Nel tentativo di diminuire la vulnerabilità del territorio americano, nel 1958 l’MIT e l’Air Force misero a punto SAGE (Semi-Automatic Ground Enviroment), un sistema di monitoraggio e difesa basato su una fitta rete d’interazioni tra supercomputer, radar e linee di telecomunicazione. Il progetto si rivelò un crogiolo per idee e sperimentazioni fondamentali per il futuro sviluppo di ARPAnet, l’antenato di internet.
MAD
Il paradosso dell’atomica è che mentre la sua potenza la rende in grado di porre fine all’intera vicenda umana, il suo principio di funzionamento sposta tale eventualità dalla casella dei fatti collettivi – che richiedono cioè la “complicità” di grandi masse di individui per un lungo lasso temporale – a quella degli eventi che possono essere decisi in pochi minuti da un numero molto esiguo di persone.
Questa “doppia natura” è una delle caratteristiche più difficili da accettare della realtà nucleare in cui viviamo da quasi 80 anni. Per conviverci, negli ultimi decenni sono emerse narrazioni che cercano di razionalizzare l’esistenza della bomba e persino di trovarvi dei lati positivi. La teoria della deterrenza e della mutual assured destruction (acronimo, voluto, MAD) è una di queste narrazioni. Secondo tale teoria (basata su un’applicazione piuttosto “lasca” della teoria dei giochi), proprio in virtù del suo potenziale apocalittico, l’atomica sarebbe la ragione per cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, non c’è più stato un conflitto di pari intensità e portata.
Con un ossimoro che avrebbe divertito Orwell, si parla addirittura di “pace nucleare”. Poiché l’atomica impedirebbe a crisi politiche tra super-potenze di sfociare in un confronto militare aperto, la “pace nucleare” sarebbe l’unica ragione per cui la Guerra Fredda non è mai degenerata in una guerra mondiale convenzionale. Una guerra, sostengono i difensori della MAD, che sarebbe stata magari non apocalittica ma di certo ancora più catastrofica delle due precedenti.
Prevedibilmente, nel pieno della corsa agli armamenti tra anni ‘60 e ‘80, concetti come la MAD e la “pace nucleare” divennero altrettanti argomenti per giustificare la proliferazione nucleare degli Stati atomici (a Stati Uniti e Russia nel frattempo si sono aggiunti Cina, Francia, UK, Pakistan, India, Israele e Corea del Nord).
I critici di teorie come la MAD ribattono che, in realtà, la teoria della deterrenza è essenzialmente un’ideologia, a metà tra il “mito” e il “wishful thinking”. Non solo non esistono contro-fattuali che la Guerra Fredda non sia sfociata in una “guerra calda” per “merito” dell’atomica ma, negli ultimi 80 anni, in mancanza di sfoghi alle tensioni tra i centri di potere, si è combattuto comunque un numero elevatissimo di conflitti regionali interminabili, quasi cronicizzati, e di guerre per procura alle periferie delle sfere d’influenza delle superpotenze (Vietnam, Afghanistan etc).
Se insomma esiste qualcosa come una “pace nucleare”, di certo non è (stata) uguale per tutti. E comunque, sostengono i critici della MAD, l’eventuale efficacia dell’atomica come deterrente non sarebbe comunque sufficiente a giustificare la minaccia assoluta che la presenza della bomba rappresenta.
Intelligenza artificiale, guerra nucleare
Comunque la si pensi, è evidente che la teoria della deterrenza ha senso soltanto finché è chiaro a tutti i partecipanti al “gioco” che non esiste una possibilità di vittoria. Che la sconfitta di una parte, è la sconfitta di tutte le parti. Questa consapevolezza si sta tuttavia facendo più sfumata. Nelle conversazioni sulla guerra in Ucraina, si sente per esempio parlare, con inquietante noncuranza, del potenziale utilizzo di “armi nucleari tattiche” da parte russa (di fatto bombe atomiche di potenza leggermente ridotta). Come se fosse possibile separare tra ordigni atomici accettabili, equiparabili quasi ad armi convenzionali, e ordigni atomici “veri e propri”.
La “normalizzazione” dell’atomica – portata avanti anche in ambito NATO –è una china molto pericolosa. Soprattutto in un momento in cui si discute di riarmo atomico e, per esempio, la Cina sta ampliando anziché ridurre il suo arsenale. E mentre persino paesi come Giappone e Germania – antiche culle del militarismo, ma con un recente passato di fermo anti-militarismo – stanno cominciando a considerare l’opzione atomica.
Non solo: nel momento in cui l’opzione atomica non è più un tabù assoluto ma viene messa sul tavolo – anche solo come “carta non giocabile” – questo fatto è sufficiente a “bucare” l’efficacia (già presunta) della deterrenza, rendendo più probabili i conflitti convenzionali tra superpotenze. L’opzione atomica giocherebbe, in questo caso, il ruolo di perimetro delle opzioni del conflitto, rendendo, per esempio, più probabile e “accettabile” il ricorso ad altre armi atroci (chimiche etc).
Lo scenario diventa ancora più allarmante se consideriamo che, all’interno del “gioco” atomico sta entrando una nuova, pericolosa, variabile: l’AI.
Secondo un paper pubblicato da RAND nel 2018, lo sviluppo di intelligenze artificiali con capacità analitiche e strategiche superiori a quelle umane, rischia di fornire a una o più potenze atomiche la percezione di poter “vincere” una guerra nucleare. Ovvero di aver trovato, grazie all’AI, una strategia per annichilire le capacità offensive dell’avversario prima che esso sia in grado di colpire.
Vera o presunta che sia, questa percezione di sicurezza – e il suo rovescio in termini d’insicurezza dal lato del potenziale “sconfitto” – minaccia di aumentare la probabilità di un futuro conflitto nucleare.
E del resto, se mi è concessa una divagazione “filosofica”, l’AI e la bomba atomica hanno diversi punti in comune. Dal punto di vista dell’ontologia tecnologica, hanno per esempio entrambi caratteri quasi escatologici e auto-inveranti. Rappresentano due potenziali punti-Omega, due diverse singolarità, dell’esperienza umana nella sua totalità.
Scorie
Quando si tratta di bomba atomica, il pensiero della catastrofe è così paralizzante da mettere in secondo piano qualunque altra considerazione. La verità è che non è solo la capacità distruttiva di queste armi a impressionare.
La problematicità della bomba atomica non comincia né finisce con un suo eventuale utilizzo. Essa ha, per esempio, a che fare con il problema della contaminazione radioattiva derivata dalla costruzione, dalla sperimentazione e, persino (anzi soprattutto), dallo smantellamento delle armi nucleari.
Tutti noi, in misura minore o maggiore a seconda dei luoghi, portiamo nelle ossa i segni della contaminazione dovuta ai test nucleari condotti per decenni da Stati Uniti, URSS, Francia e altre potenze atomiche. Per non parlare del fatto che la produzione, la manutenzione e la dismissione di ogni singola bomba atomica produce una quantità elevatissima di rifiuti nucleari (nell’ordine di decine di tonnellate per ogni singola bomba a seconda della tipologia). Molti di questi rifiuti saranno ancora radioattivi tra 100mila anni e ognuno di essi, per essere trattato, produrrà ulteriori innumerevoli rifiuti (secondo il principio che ciò che è contaminato, a sua volta contamina).
Un circolo vizioso che è solo uno dei tanti assurdi sottoprodotti dell’esistenza della bomba atomica sul nostro pianeta.
Il sonetto di John Donne, a cui Oppenheimer si ispirò per il nome (Trinity) che diede al test della prima bomba atomica.
Nel 2015, un gruppo di geologi ha proposto di considerare il giorno del Trinity test come una delle possibili date d’inizio dell’antropocene. Su Nature trovate una spiegazione delle ragioni della proposta.
Il Doomsday Clock è l’orologio simbolico con cui il Bulletin of the Atomic Scientist (a sua volta una delle associazioni più incredibili al mondo) misura il rischio di catastrofe nucleare. Se una giornata è fatta di 24 ore e l’apocalisse giunge alla mezzanotte, da quando esiste la bomba atomica, viviamo, simbolicamente e costantemente, a sette minuti dalla mezzanotte. A fine 2022, in virtù della guerra in Ucraina, l’orologio è stato spostato a soli 90 secondi dalla mezzanotte. Non era mai stato così vicino.
Un libro consigliato sul tema dell’atomica è The Doomsday Machine di Daniel Ellsberg, già leggendario whistleblower dei Pentagon Papers scomparso il 16 giugno scorso.
Tre anni fa, l’SGS program di Princeton ha sviluppato una simulazione di scontro nucleare tra Stati Uniti e Russia. Questo video ne riassume i terrificanti esiti (NO persone ansiose).
Cliccate qui per supportare ICAN, la più importante iniziativa/associazione/petizione mondiale in favore del totale disarmo atomico.
La signora delle merci è il mio secondo libro. È uscito a maggio per LUISS University
Parla del ruolo della logistica e dei grandi trasporti nel mondo di ieri e di oggi. Parla di Amazon e di navi fenicie, di Alessandro Magno e di container, di supply chain e di Spazio, di guerre coloniali e di Repubbliche Marinare, di Keynes e di Friedman.