Macro | 🏭 "L'industria delle industrie" 🚘
Perché l'automotive è ancora un prisma per leggere il mondo, e i cambiamenti della società e del capitalismo, e perché ho scritto un libro per raccontarla
Esce oggi il mio terzo libro per LUISS University Press. Si intitola Velocissima e, come recita il sottotitolo, racconta “l’industria dell’auto da Henry Ford a Elon Musk”. Il titolo è una scelta dell’editore, che ho sposato poiché riassume bene una delle caratteristiche fondamentali del settore automobilistico, cioè la velocità con cui avvengono i cambiamenti (lo vediamo anche in questi anni).
Ma Velocissima dice qualcosa anche dello stile del libro: agile e pensato per rendere accessibile e coinvolgente una storia industriale lunga e complessa, con lo stesso spirito divulgativo che ha guidato La signora delle merci e Il re invisibile, i miei precedenti lavori per LUISS, dedicati a logistica e semiconduttori. Nel complesso, questi tre volumi formano ora una sorta di trittico su alcune delle industrie più cruciali, trasformative e politicamente sensibili del nostro tempo.
Quando, due anni fa, pubblicai il mio libro sulla logistica globale e le supply chain, non immaginavo che sarebbe diventato l’inizio di un percorso. Eppure, le affinità tra questi temi – globalizzazione, catene del valore, tensioni geopolitiche – sono così strette e ricorrenti che scrivere di chip prima e di auto poi è sembrata una naturale prosecuzione del percorso. Anche così è nata Velocissima (che è anche un ritorno a tematiche affini al mondo dei trasporti e del movimento, che saranno nuovamente al centro dei miei prossimi lavori).
Un disclaimer: Velocissima non è (solo) un libro sull’attualità. Resterà deluso chi si aspetta un pamphlet “pro” o “contro” la transizione energetica e l’auto elettrica. Non è neppure, malgrado la presenza nel sottotitolo, un libro su Elon Musk, che è protagonista di un solo capitolo ma abbondantemente meno presente dell’altro personaggio citato, Henry Ford.
Per capirci, Velocissima è prima di tutto un libro di storia. Parla di fordismo e di post-fordismo, di filosofie manageriali e di crisi petrolifere, di guerre mondiali e di cambiamento climatico, di ingegneria dei motori e di carrozze (ebbene sì), di crisi finanziarie e di sindacalismo, di cambiamenti dei costumi e di trasformazioni urbanistiche… e ovviamente anche di Cina, Musk, Trump e batterie ma solo nella sua coda finale. È la storia di un’industria che ha segnato la contemporaneità in modi su cui, credo, non si riflette abbastanza. L’obiettivo è offrire contesto: mostrare come molte delle questioni che oggi ci sembrano nuove abbiano radici profonde, dinamiche ricorrenti, cicli che si ripetono e che si sovrappongono a vecchie tensioni mai del tutto risolte.
In questo senso, Velocissima è un tentativo di leggere il presente alla luce del passato. Di capire, attraverso la lunga traiettoria dell’industria automobilistica, qualcosa in più su come funzionano il cambiamento tecnologico, le trasformazioni del lavoro, le sfide della globalizzazione e le relazioni tra capitalismo e politica.
Questa è la copertina del libro, mentre quella che segue è la sua introduzione (seguiranno aggiornamenti su date di presentazione, eventi, recensioni e altro).
Nel 1946 il teorico del management Peter Drucker definì l’industria automobilistica come “l’industria delle industrie”. Non era un’iperbole ma la constatazione di un fatto senza precedenti: un singolo prodotto era diventato l’epicentro dell’intero paradigma della modernità. Aveva ridefinito i processi di manifattura, le logiche energetiche, le dinamiche socio-politiche in modi del tutto originali rispetto a quelli sperimentati nel corso delle rivoluzioni industriali del XIX secolo.
Dai primi motori a combustione interna di fine Ottocento alle catene di montaggio d’inizio Novecento, dalla globalizzazione alla transizione energetica, è innegabile che la storia della produzione di automobili coincida in gran parte con quella del capitalismo contemporaneo. L’automotive è stata, ed è, laboratorio di innovazioni produttive, organizzative e finanziarie con enormi ricadute su innumerevoli settori, inclusi svariati con cui essa nemmeno interagisce direttamente. In poco più di un secolo l’industria dell’auto ha modellato il lavoro e le città, le politiche economiche e le relazioni industriali. L’automotive è uno dei principali vettori di trasformazione del mondo contemporaneo.
Come forse nessun’altra industria, la sua vicenda è intrecciata con il ruolo dello Stato nell’economia. Dall’intervento pubblico nei primi esperimenti produttivi all’attuale geopolitica delle batterie, l’auto ha sempre rappresentato un punto di convergenza – e dialogo reciproco – tra mercato e potere. Henry Ford non fu solo un imprenditore ma anche un ideologo dell’organizzazione, capace di plasmare un modello produttivo che i governi studiarono con attenzione. Il “fordismo” non riguardò solo la fabbrica: trasformò la dimensione urbana, il rapporto con il consumo, persino le forme di mobilitazione politica. La sua definitiva consacrazione come matrice per un nuovo tipo di società, fu inoltre inseparabile dalla trasformazione del capitalismo americano nel corso del cruciale passaggio tra “roaring twenties” , Grande Depressione e New Deal.
Nel periodo inter-bellico, le economie pianificate e quelle di mercato compresero che l’automobile era un tassello essenziale della società moderna. L’Unione Sovietica, la Germania nazista, l’Italia di Mussolini, la Francia e, naturalmente, gli Stati Uniti, investirono enormi risorse per sviluppare il settore, che consideravano una questione tanto di politica industriale quanto di proiezione internazionale (si sarebbe rivelato anche un contribuente decisivo alle economie di guerra). La crescita di aziende come General Motors, Ford, Volkswagen, Renault, FIAT fu il risultato di questo intreccio tra spirito imprenditoriale e sostegno pubblico, un meccanismo di reciprocità tra industria e Stati che venne messo ancora più a fuoco nel dopoguerra, negli anni della cosiddetta “golden age” dell’automobile.
Da quell’imprinting iniziale si possono fare derivare molti dei successivi destini delle aziende sopra citate: non ultima la loro capacità di reggere le crisi. E di crisi l’automotive ne ha attraversate molte. A cominciare dallo shock petrolifero del 1973. Che non fu solo una crisi energetica ma rappresentò un passaggio critico nella riconfigurazione delle gerarchie produttive globali, nonché nell’erosione del compromesso tra capitale e lavoro su cui si era retta la crescita occidentale negli anni dei “miracoli economici". L’aumento improvviso del prezzo del petrolio colpì al cuore l’industria automobilistica, accelerando il declino delle grandi manifatture occidentali e spianando la strada alla riorganizzazione produttiva, e sociale, che avrebbe caratterizzato i decenni successivi.
La crisi degli anni Settanta non fu solo una crisi congiunturale ma l’inizio di un’ampia trasformazione. Negli Stati Uniti e in Europa, il modello di organizzazione socio-industriale fordista mostrò rapidamente il fianco: il rallentamento della domanda, le rigidità del sistema produttivo e l’esplosione dei costi energetici richiesero un nuovo paradigma. Fu in questo contesto che – trainate dalle vendite record di Toyota – emersero le pratiche manageriali giapponesi del “miglioramento continuo” (kaizen), con la loro enfasi sulla flessibilità, la riduzione degli sprechi e la sincronizzazione tra produzione e consumo. Il post-fordismo che, in seguito anche alla diffusione del “metodo Toyota”, si impose negli anni ’80 non fu solo un riordino tecnologico, ma un cambio radicale nel rapporto tra impresa e lavoratori.
La globalizzazione degli anni ’90 accelerò questi processi. La fine della Guerra Fredda e la liberalizzazione dei mercati portarono a un’espansione senza precedenti del capitale transnazionale. L’industria automobilistica, sempre più integrata in una rete globale di produzione e assemblaggio, vide l’espandersi di nuove frontiere manifatturiere in Asia, America centro-meridionale ed Europa dell’Est. Parallelamente, la finanziarizzazione dell’economia spostò l’attenzione dal profitto industriale a quello speculativo, con profonde conseguenze sulla strategia delle imprese.
All’inizio dei Duemila, di aziende di automobili si parlava ormai poco, se non pochissimo, giusto per registrare questa o quella fusione o qualche increscioso scandalo. Il settore pareva consolidato nel suo relativo declino ma molto meno appassionante rispetto alle continue “disruption” dell’economia digitale.
Eppure, proprio quando sembrava relegata a una sorta di indefinita inerzia, l’industria automobilistica è tornata al centro del dibattito. Nell’ultimo decennio le politiche per il clima hanno ufficialmente lanciato una corsa tecnologica verso nuovi orizzonti della mobilità. Una trasformazione che in principio sembrava lenta e molto lontana e che si sta invece rivelando prossima e velocissima. La velocità dei cambiamenti è, del resto, una delle caratteristiche storiche dell’automotive, che spero che questo libro riuscirà a trasmettere ai suoi lettori.
L’attuale corsa ha preso varie forme. Ha assunto le fattezze di un imprenditore sudafricano con il complesso di Iron Man ma un indubbio talento per l’ingegneria dei processi. Con l’approccio “software-defined” di Tesla, Elon Musk è stato il primo capitalista occidentale a capire che l’industria dell’auto non era più una questione di ingegneria meccanica, ma un intreccio complesso di chimica, hardware e software. Prima di lui, invero, alla stessa conclusione erano arrivati altri svariati personaggi, i quali tuttavia gradiscono meno i riflettori, su tutti tecnocrati e imprenditori cinesi come Wan Gang e Wang Chuanfu, due tra le molte espressioni di un paese, la Cina, che investe da quasi vent’anni in “nuova mobilità”.
Attraverso politiche industriali mirate, incentivi, sussidi e una gestione strategica delle materie prime coinvolte nei processi produttivi delle batterie elettriche, Pechino ha aiutato le sue aziende a scavare un solco competitivo che di recente è emerso in modo tanto chiaro quanto brutale, e che appare al momento difficile da colmare soprattutto per le aziende europee. BYD, CATL, Nio sono nomi che, fino a pochi anni fa, dicevano poco o nulla agli occidentali. Oggi sono sinonimo della capacità cinese di imporsi non solo come “fabbrica del mondo", ma come leader tecnologico del pianeta. L’ascesa dell’auto cinese, e soprattutto le difficoltà di quella europea, ha di recente reso l’automotive un settore nuovamente discusso alle nostre latitudini.
Ci si è accorti che se si segue il filo di una ricarica elettrica ci si imbatte presto nei temi globali più rilevanti di questi anni Venti: il controllo delle materie prime e delle supply chain che si traduce in presidio delle nuove tecnologie, ovvero delle possibilità di sviluppo e di proiezione di potenza dei rivali geopolitici. La strada dell’automotive è perciò tornata a incrociare quella degli Stati, le loro politiche industriali, i loro protezionismi, dazi, sussidi etc.
Come era accaduto ai suoi albori, e poi ancora negli anni Trenta, Cinquanta e Settanta, l’industria dell’auto è oggi un campo di forze anche simboliche, dove si scontrano visioni diverse del futuro. Quella cinese che, senza indugi, vede nelle batterie e nei software il futuro di tutta la nuova mobilità. Quella degli Stati Uniti e soprattutto dell’Europa, dove la transizione è vissuta in modo più contraddittorio.
La transizione non riguarda, del resto, solo le aziende. Coinvolge intere economie ed ecosistemi industriali. Rispetto ai veicoli tradizionali, la produzione di auto elettriche altamente digitalizzate non è solo un altro campionato. È un altro sport. Cambia il modo in cui si estraggono e lavorano le materie prime, il modo in cui si produce energia, il modo in cui si costruiscono le infrastrutture, il modo in cui si progetta la mobilità urbana, la quantità e la tipologia di manodopera coinvolta. Significa, di nuovo, ridisegnare i rapporti di forza tra industrie e tra nazioni, con implicazioni che vanno ben oltre il semplice cambio di paradigma tecnologico.
C’è infine un altro aspetto fondamentale: la finanza. La trasformazione dell’industria è anche una partita finanziaria, dove il controllo dei capitali decide le sorti dei protagonisti. Gli investitori guardano all’auto elettrica con attenzione, ma anche con scetticismo e le incertezze di questi anni (le guerre, Trump, i dazi) rendono il futuro meno prevedibile e sicuro di quanto apparisse pochi anni fa. L’ascesa di Tesla è dovuta anche alla sua capacità di raccogliere capitali e bruciare cassa in una misura impensabile per i vecchi colossi industriali. La stessa pazienza sarà concessa anche ad altri protagonisti, più tradizionali, del panorama dell’automotive?
Quello che è evidente è che non siamo di fronte a un semplice cambiamento tecnologico ma a un riassetto del capitalismo stesso (e dell’egemonia sottostante) e, ancora una volta, l’industria dell’auto sembra essere il luogo dove la sintomatologia della trasformazione appare nel modo più chiaro e marcato. Come nel 1946, quando Drucker parlava di “industria delle industrie”, l’automotive è un prisma attraverso cui leggere il capitalismo globale, le sue dinamiche, le sue crisi, le sue reinvenzioni. Raccontarne la vicenda – seppure nella sintesi velocissima e divulgativa che propone questo testo – significa rileggere l’ultimo secolo e passa di Storia attraverso uno dei suoi oggetti più iconici e controversi: un mezzo che ci offerto una libertà senza precedenti ma al prezzo di molte crisi.
Se siete nuovi da queste parti, io mi chiamo Cesare Alemanni. Mi interesso di questioni all’intersezione tra economia e geopolitica, tecnologia e cultura. Per Luiss University Press ho pubblicato La signora delle merci. Dalle caravelle ad Amazon, come la logistica governa il mondo (2023), Il re invisibile. Storia, economia e sconfinato potere del microchip (2024) e Velocissima. Storia dell’automobile da Henry Ford a Elon Musk (2025).
tutta la mia ammirazione