Ultimo post dell’anno di Macro. Il bilancio di questi primi sei mesi della newsletter è senza dubbio positivo (meno positivo è ciò che accade nel mondo, ne parliamo anche in questo post, ma purtroppo questo è…). I lettori e le iscrizioni sono in costante crescita (grazie!) e sono molto contento della frequenza con cui sono riuscito a scrivere fin qui. Spero che abbiate trovato contenuti, temi e idee meritevoli del vostro tempo e mi auguro di riuscire a fornirvene ancora nel 2024, anche se probabilmente nei primi mesi dell’anno riuscirò a scrivere con meno frequenza. Come anticipato in una lettera precedente, sto infatti scrivendo un libro che dovrebbe uscire in primavera e su cui spero di darvi maggiori ragguagli a breve.
Nel frattempo non mi resta che ringraziarvi di nuovo per il tempo che avete scelto di dedicare a Macro e augurarvi una buona fine di 2023 e inizio di 2024 (sperando che il pensiero del signore qui sotto non vi mandi di traverso il cenone).
Diceva Aristotele che qualunque fenomeno si può trovare in uno di due stati: “in potenza” o “in atto”. Il seme è seme “in atto” e pianta “in potenza”. Il neonato è neonato “in atto” e adulto “in potenza” e così via (questa spiegazione trascura infinite sfumature del concetto aristotelico ma il succo c’è). Quando una cosa esiste solo “in potenza” essa non ha, generalmente, effetti concreti sulla realtà “in atto”. Questo a meno che la cosa in questione non si chiami Donald Trump.
A undici mesi e qualche giorno dalle elezioni che potrebbero riportare Trump alla Casa Bianca, gli effetti di un eventuale e potenziale ritorno di Trump alla Casa Bianca riverberano pressoché su tutte le grandi questioni con cui il 2023 si avvia al termine e il 2024 si appresta a cominciare. Vediamole.
Ucraina
L’ombra di The Donald si allunga senz’altro sull’Ucraina e la guerra in corso nel paese. Trump ha più volte dichiarato che, se fosse rieletto, la “guerra finirebbe in 24 ore”. Tradotto: gli USA ritirerebbero immediatamente il sostegno economico e l’invio di equipaggiamento a Zelens’kyj, rendendo impossibile la difesa del paese e spingendo gli ucraini a negoziare con Putin, con annesse concessioni territoriali. Questa volontà, ampiamente sbandierata, non avrebbe/avrà solo effetti in caso di vittoria di Trump ma, a tutti gli effetti, li sta già avendo oggi, molti mesi prima delle elezioni. La prospettiva del ritorno di Trump garantisce a Putin un orizzonte temporale a cui guardare. Soprattutto gli dà un traguardo da indicare al suo paese, che palesava ormai una certa “fatica di guerra”. Insomma se già le possibilità di una conclusione del conflitto in tempi brevi erano pressoché inesistenti, l’appuntamento dell’elezione americana garantisce che esso continuerà almeno per tutto il 2024.
La vicenda si inserisce in un contesto generale sempre più compromesso per l’alleanza atlantica a sostegno di Kiev. Se fino a qualche mese fa, sulle ali dell’iniziale entusiasmo per la controffensiva ucraina, il sentimento comune a quasi tutti i paesi occidentali era che la NATO fosse un’istituzione indispensabile e anzi da rafforzare, oggi, a controffensiva fallita, siamo ormai ben oltre il “peak NATO” e il fronte inizialmente compatto dell’Occidente sta rivelando sempre più crepe (quasi tutte preesistenti ma fino allo scorso autunno ben nascoste). Il che chiama immediatamente in causa…
L’Europa
Se l’eventuale vittoria di Trump portasse con sé la fine dell’alleanza atlantica, con un’uscita più o meno integrale degli USA dalla NATO, per l’Europa significherebbe doversi, di colpo, fare carico per intero della propria difesa. Per paesi come la Germania si tradurrebbe nella necessità di destinare alle spese militari ben più di quel 2% di PIL, indicato fin dai tempi di Obama come soglia minima per “ribilanciare” gli oneri economici all’interno della NATO. Vale inoltre la pena domandarsi se un’Unione già fragile e traversata da divisioni e spaccature possa sopravvivere alla fine della lunga stagione dell’Atlantismo, ovvero al più grande riallineamento geopolitico dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Se venisse meno il vincolo esterno americano, con le leve e le suasion a sua disposizione e che abbiamo visto abbondantemente dispiegate all’inizio della guerra in Ucraina, cosa vieterà che i singoli stati membri perseguano, aldilà della facciata comune, ciascuno interessi e clientele proprie all’interno degli allineamenti delle superpotenze atomiche e demografiche (USA, Cina, Russia, India)? Ma soprattutto, venuta meno la leadership americana nelle faccende geopolitiche europee, una leadership esterna che in qualche modo sublimava il problema di definirne una autoctona, chi si arrogherà l’onere di parlare, e decidere, per il Vecchio Continente, in materie non più solo economiche ma su questioni “esistenziali” come la difesa?
Se consideriamo uno scenario di eventuale sopravvivenza della NATO senza gli USA, allora i candidati più papabili sono Regno Unito e Francia, gli unici con una credibile capacità di deterrenza nucleare (seppure largamente inadeguata a tenere testa all’arsenale russo). Se invece immaginiamo uno scenario 100% post-NATO, in cui l’Unione Europea debba costruire da zero una propria autonomia strategica e una politica di difesa che non contempli né l’alleanza USA né quella britannica, allora non è difficile immaginare che si riproporrebbe, probabilmente, il vecchio, ancestrale problema di radice carolingia: Francia o Germania? Un duopolio marcato da interessi storicamente inconciliabili, da sempre inefficiente, costantemente a un passo dal diverbio. Come una specie di capsula del tempo di un secolo fa, il tramonto del “patto atlantico”, che era anche una forma di congelamento del “problema europeo” ben più vincolante della sola Unione, ci riconsegnerebbe il dilemma franco-tedesco pressoché intatto in tutti i suoi aspetti essenziali.
Anche in questo caso non serve aspettare l’effettivo avvento di Trump, per vedere alcune dinamiche già in moto. È sufficiente osservare sotto questa luce le recenti affermazioni di Macron che ha in sostanza rivolto a Putin un invito alla negoziazione non si sa bene in vece di chi. Della sola Francia? Della NATO? Dell’Europa? Il tutto mentre una Germania in crisi di economia e di leadership, scivola da un lato lentamente verso le posizioni neo-nazionaliste e neo-revanchiste dell’AfD – la cui ontologia politica è in naturale rotta di collisione con qualunque forma di macronismo – che sempre più apertamente rivendicano una posizione eccentrica, rispetto al resto dell’Occidente, su temi chiavi come l’atteggiamento nei confronti di Russia e Cina (una posizione che peraltro non disdegna neppure l’establishment tedesco).
Cina
Qualche settimana fa, alla vigilia dell’incontro di San Francisco tra Biden e Xi, scrivevo di come la “questione cinese” fosse sempre più pericolosamente intrecciata con le logiche della campagna elettorale americana e la propaganda trumpiana che, in merito a Pechino, è particolarmente machista, tossica e priva di senso delle istituzioni.
In quell’occasione definivo l’incontro Biden -Xi come un’occasione di probabile “melina”. Mi sbagliavo. Benché le “grandi questioni” sul tavolo, quelle in cui gli interessi americani e cinesi sono del tutto inconciliabili, sia ancora tutte sul tavolo, la verità è che l’incontro è stato più fruttifero del previsto. L’avvicinamento tra Biden e Xi c’è stato ed è stato palpabile. Non solo per gli accordi raggiunti su temi secondari, ma importanti, come il “dossier fentanyl” ma anche perché si è percepito il desiderio di entrambi i leader di porre la relazione su un piano d’intesa piuttosto che di sfida. Non è blanda propaganda, lo confermano gli atteggiamenti, durante e dopo la visita, di Xi e della sua delegazione, decisamente meno assertivi di un tempo. Del resto Pechino non sta attraversando il suo migliore momento. È in mezzo a un delicato e difficile guado, economico e geopolitico, e non avrebbe senso strategico premere sull’acceleratore della competizione proprio in questo momento.
Nonostante Biden non sia stato “tenero” con la Cina – alla quale ha applicato, per esempio, sanzioni in settori strategici dello sviluppo tecnologico – è evidente che, anche solo per senso istituzionale, negli ultimi mesi la sua amministrazione abbia cercato di “infrastrutturare” la relazione con Pechino, così da avere canali aperti con Pechino nel caso la rivalità si surriscaldasse al punto da avvicinarsi al conflitto.
Un ritorno di Trump sulla scena – con la sua miscela di ammirazione personale per Xi e sinofobia – rischia di far regredire questa infrastruttura allo stato, più nebuloso e incerto, delle interazioni informali tra uomini forti.
Per non dire del fatto che – come si ripete spesso – la politica di contenimento cinese degli USA è certo ormai una dottrina entrata in profondità sotto la pelle dell’establishment di Washington, ma è anche vero che è proprio a quell’establishment, il cosiddetto “deep state”, che Trump ha giurato una guerra senza quartiere. In caso di rielezione, Trump ha già assicurato che questa volta si farà circondare da una junta di fedelissimi pronti a rovesciare le visioni di lungo corso della politica americana. Anche sulla Cina. È dunque, per esempio, lecito aspettarsi il ritorno a “spettacolari” guerre commerciali indiscriminate, e piuttosto inefficaci, su qualunque tipo di filiera industriale, al posto dell’attuale politica di blocchi mirati alle esportazioni di tecnologie sensibili. L’effetto economico di una simile regressione alle trade war di fine anni Dieci sarebbe potenzialmente molto grande e negativo per l’intera economia mondiali, i suoi risultati politici e strategici sarebbero invece, per gli USA, molto scarsi.
Per finire c’è il tema di Taiwan. Laddove Biden è stato sempre molto fermo nell’assicurare la difesa dell’isola, tra l’altro fondamentale snodo per la filiera dei microchip, Trump in passato è stato meno adamantino in proposito. A Taiwan, per esempio, nessuno dimentica come, nel recente passato, Trump abbia accusato il governo dell’isola di avere “rubato” l’industria dei chip all’America (accusa storicamente del tutto infondata).
Stati Uniti
In conclusione veniamo al paese che più di ogni altro ha da temere l’impatto di un Trump-bis e che, anzi, sta già ora accusando anche solo il suo potenziale verificarsi: gli USA. Una vittoria elettorale di Trump nel 2024 avrebbe un sapore – all’interno come all’esterno del paese – molto diverso da quella di otto anni fa. Se nel 2016 il voto per Trump poteva essere “giustificato” come un contraccolpo dei problemi socio-economici creati da due decenni di iper-globalizzazione: un classico voto di protesta, un salto nel vuoto, incosciente sì ma, a suo modo, comprensibile; oggi nessuno può dire che gli americani non sappiano che animale politico sia Trump e a cosa vadano incontro mandandolo nuovamente alla Casa Bianca. In un momento in cui la solidità dell’egemonia americana è già declinante, ciò inevitabilmente influirà sulla fiducia e la credibilità che il resto del mondo ripone nell’America. Il che, specie se Trump fosse eletto e dovesse davvero scegliere la strada dell’assoluto isolazionismo, è particolarmente problematico in un momento di grandi riallineamenti degli equilibri globali.
Anche dal punto di vista degli “affari interni” un eventuale secondo mandato di Trump sarebbe altamente problematico. Nonostante le politiche economiche di Biden – la cosiddetta Bidenomics – siano state tutte tese a riassorbire il malcontento dei ceti medi, l’America non è oggi un paese meno arrabbiato, scontento e diviso di quanto fosse otto o quattro anni fa. Per un verso questo fatto si può attribuire all’inflazione che ha eroso, rendendoli meno palpabili, gli effetti redistribuivi della Bidenomics. Per un altro verso esso ha a che fare col fatto che molto semplicemente vaste parti dell’opinione pubblica americana sono ormai così radicalizzate, in una direzione o nell’altra, da non poter più essere capaci di dialogo costruttivo.
L’America si avvia a un’elezione in cui, per un motivo o per l’altro, nessuna delle due parti sembra pronta a concedere la legittimità dell’eventuale vittoria dell’altra. Questo è un ingrediente “nuovo” che mancava del tutto nel 2016. Trump lo ha introdotto nel 2020, con la contestazione del voto sfociata nell’assalto al Campidoglio, ma nel 2024 la divisione e l’ostilità si preannuncia totalizzante. Se infatti quattro anni fa erano solo i trumpster più radicali a credere nella tesi dei brogli, oggi anche una parte dei liberal e dei democratici sarebbe pronta a ribellarsi all’eventuale verdetto delle urne. Il motivo ha a che fare, ovviamente, con gli innumerevoli problemi giudiziari di Trump che, secondo numerosi cittadini di area democratica (e repubblicana moderata), dovrebbero impedirgli di presentarsi alle elezioni.
Questa tendenza è sfociata nelle decisioni di Stati come Maine e Colorado di vietare la partecipazione di Trump alle primarie. Alla base della scelta c’è una vecchia legge del 1807, che banna dalle elezioni coloro che si siano macchiati di atti insurrezionali. Nei prossimi mesi, sarà la Corte Suprema a giudicare se il comportamento di Trump in occasione dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 sia da considerare un incitamento all’insurrezione. È possibile, ma non probabile, che alla fine Trump venga addirittura estromessa dalla corsa presidenziale (un’eventualità che è difficile immaginare priva di conseguenze). In ogni caso le scelte di Colorado e Maine enfatizzano fino a che punto le due parti dell’America si considerino illegittime e reciprocamente esclusive e come le prossime elezioni potrebbero essere recepite da entrambe nei termini di una questione esistenziale, una faccenda di vita o di morte.
Nel clima infuocato della campagna elettorale, ad aprile uscirà Civil War, il nuovo film di Alex Garland (Ex Machina, Annihilation). Come si evince dal titolo, racconta la storia di una guerra civile negli Stati Uniti contemporanei. Qualche anno fa una trama del genere sarebbe stata catalogata come fantascienza. Nel 2024 rischia, purtroppo. di somigliare alla cronaca.