Un rapido commento alla notizia più “Macro” del giorno: la scomparsa di Henry Kissinger. Se ci sarà modo e tempo, magari tornerò sulla questione più avanti con qualcosa di più articolato,
Dopo una lunga vita, è morto Henry Kissinger. Era nato 100 anni, 6 mesi e 2 giorni fa, nella Germania devastata dalla Prima Guerra Mondiale, dalle riparazioni e dalla iper-inflazione galoppante. Un’altra epoca e un altro mondo. Sappiamo bene come finì quella Germania. E proprio per quel motivo, la famiglia Kissinger, ebraica, nel 1938 dovette riparare negli USA. Heinz (arrotondato poi in Henry) arrivò nel Nuovo Mondo a quindici anni. Vi studiò, lavoro e visse il resto della vita, ma non perse mai l’accento bavarese.
A vent’anni tornò in Germania per combattere nazisti e catturare ufficiali della Gestapo. Aneddoto quasi da film. Poiché parlava un perfetto tedesco, scalò rapidamente le gerarchie e gli venne assegnato il compito di “denazificare” un’intera provincia. Secondo molti esegeti della sua figura, fu l’esperienza fondativa della sua vita e della sua filosofia. Tornare nel paese in cui era cresciuto e ritrovarlo fatto a pezzi per le colpe di un regime, gli instillò una devozione assoluta per la democrazia. La cui “difesa” divenne, per lui, un fine che giustificava qualunque mezzo. E di mezzi ne usò molti.
Circolano innumerevoli storie su Kissinger. E in effetti la sua figura – dall’accento da Dr Stranamore, alla sua concezione del mondo, più dark ed europea che idealista ed americana – si prestava a rappresentare plasticamente il volto più sgradevole dell’imperialismo USA. Un ruolo da super-cattivo che, in realtà, gli solleticava visibilmente l’ego. E tuttavia, grattando sotto la patina superficiale della Storia, si scopre che Kissinger, con il suo stile metternichiano, nel quadrato semiotico del potere USA era tanto un eccentrico, quanto un integrato.
Da Jefferson in poi la storia del potere americano, specie nei suoi riflessi internazionali, è segnata principalmente da pensatori analitici e da produttori di dottrine – i Monroe, i Kennan, i McNamara – piuttosto che da affrescatori di grandi panorami culturali e geopolitici come Kissinger. E tuttavia gli uni e gli altri non sono mai davvero, fino in fondo, dei freelance della politica estera. Perseguono azioni al cui fondo ci sono sempre visioni di portata più ampia dello sviluppo del potere americano. Ed eppure solo Kissinger è riuscito a personalizzare così tanto le proprie responsabilità e le proprie azioni, costruendosi una fama da arci-villain, a cui lui stesso volentieri contribuiva con i suoi cinici aforismi sui grandi sistemi del mondo. Una fama che lo ha aiutato a farci dimenticare quanto spesso le sue decisioni, incluse quelle più problematiche, fossero, in realtà, espressione coerente di interessi sistemici, e di lungo periodo, degli Stati Uniti.
Il caso forse più emblematico è la famigerata scelta di bombardare la Cambogia durante la guerra del Vietnam. Una decisione che aveva in realtà le radici in una serie di operazioni aeree sul confine cambogiano che datavano ad almeno due anni prima, all’epoca di Lyndon Johnson. Allo stesso modo, forse quella che resta la politica di Kissinger più "gravida” di conseguenze (peraltro non quella a cui pensava), l’apertura alla Cina, fu in realtà, soprattutto, un’intuizione di Nixon. Una volta analizzati meglio i fatti, di “kissingeriano” in Kissinger resta poco.
Con il suo mito, accuratamente coltivato, di politico e intellettuale machiavellico, Kissinger ha fatto da “paravento” a figure decisamente più effettuali della sua. In questo senso è interessante confrontare la carriera di Kissinger con quella di Robert McNamara. Segretario alla difesa sotto Kennedy e Johnson, nonché espressione di quello stile analitico e burocratico a cui accennavo prima, McNamara, un intelletto ingegneristico e matematico, non aveva vissuto la seconda guerra mondiale dando la caccia ai nazisti in Germania ma calcolando, in una stanza del Pentagono, il numero esatto di bombe da sganciare per ottenere un determinato obiettivo. McNamara è morto nel 2009 non dico nel disinteresse generale ma quasi. Di certo anche perché McNamara non parlava come un oracolo da film. Ed eppure se osserviamo le azioni di McNamara, esse ci rivelano un’impronta molto più profonda di quella di Kissinger.
Fu McNamara, per esempio, ad avviare la prima escalation del coinvolgimento militare americano in Vietnam. E, da presidente della Banca Mondiale (1968 - 1981), un organismo “multilaterale” che egli trasformò profondamente, fu sempre McNamara a promuovere – in nome certo della lotta alla povertà e con probabili “buone” intenzioni – un profondo redesign dell’economia e della finanza internazionale, nonché l’infrastrutturazione, logistica e finanziaria, di numerosi paesi del “terzo mondo”. Un’opera che sarebbe risultata vitale per lo sviluppo materiale della globalizzazione a guida americana dagli anni Ottanta in poi.
C’è persino un punto in cui la traiettoria di McNamara e quella di Kissinger si incontrano, mostrando la complementarietà di due stili diplomatici così distanti all’interno di una concezione di lunga durata della politica estera americana del dopoguerra. Quel punto è il Cile di Allende. È un fatto un po’ dimenticato che, nel 1972, da presidente della Banca Mondiale, McNamara si recò in Cile per incontrare Allende. Il quale gli chiese di sostenere il suo paese, e il suo governo democraticamente eletto, con dei prestiti. Diciotto mesi prima prima il Cile era stato del resto tagliato fuori, su pressione proprio di Kissinger, dal sistema del credito occidentale. McNamara negò ad Allende i prestiti. Poiché, disse, era “preoccupato dalle prassi di nazionalizzazione” del governo cileno. A posteriori emerse che McNamara – che, ricordiamolo, al tempo agiva come direttore di una organizzazione multilaterale in teoria sopra le parti – subì in realtà anche pressioni per negare i presti dal Segretario del tesoro americano John Connally. Il rifiuto di McNamara e l’impossibilità di accedere persino ai canali della solidarietà finanziaria internazionale, rappresentarono per Allende una sentenza. L’11 settembre del 1973 il suo governo, democraticamente eletto, venne rovesciato da un golpe con il supporto americano. A Santiago salì al potere la famigerata Junta di Pinochet e, a inizio 1974, McNamara decise che il Cile era tornato a essere degno della fiducia della Banca Mondiale.
Cinquant’anni dopo il ruolo di McNamara, Connally e, persino di Nixon, in quella vicenda si sono trasformate quasi in note a piè di pagina della Storia. Se ripensiamo a quegli eventi in chiave americana, la memoria ci rimanda indietro solo il volto da stregatto di Kissinger, l’uomo che amava essere odiato.