All’inizio del pandemia scrissi un articolo intitolato “Vivere l’incertezza”.
La tesi era: i virus e le epidemie sono un fatto naturale e non c’è progresso che possa farli sparire del tutto: la scienza, e la medicina, per il momento, non funzionano così. Dobbiamo accettare che il problema non si possa risolvere in tempi brevi e navigare, giorno per giorno, il mare di incognite che ci si prospetta, cercando di restare lucidi ed umani.
L’articolo si chiudeva con queste righe:
«Dovremo tornare a familiarizzare con l’idea che non siamo i “padroni” del pianeta ma solo uno dei suoi ospiti. Se ci riusciremo, nella probabile perdita di molto, avremo comunque guadagnato moltissimo in termini di comprensione della complessità, delle leggi inafferrabili che la governano e delle strutture a cui ne abbiamo delegato la gestione. Ci tornerà utile.»
Purtroppo, non è andata così. Dal covid non siamo “usciti migliori”, come si sperava. Anzi, la fiducia nelle istituzioni, nella scienza e nelle “versioni ufficiali” si è ancora più erosa, le nostre società sono polarizzate più che mai e così via. E il covid, nella sua fase acuta, è durato “solo” due anni.
Possiamo imputare alla pandemia molti danni: sette milioni di morti, le sofferenze di centinaia di milioni, triliardi di perdite economiche, l’impoverimento di persone, o interi paesi, già in difficoltà. Sono numeri terribili, ma che fanno parte del bilancio inevitabile delle catastrofi. Ciò che non possiamo addebitare al covid sono i danni, ancor più duraturi, che noi stessi abbiamo fatto… a noi stessi e che stanno sprofondandoci in un baratro di tossicità insanabile (non solo dentro le società, ma anche tra le società), al cui epicentro c’è un mix di emozioni primarie, politica e manipolazione dei media (vecchi e nuovi).
Temo che la stessa cosa avverrà con la crisi climatica, ora che il tema sta definitivamente affiorando alla coscienza del mainstream. C’è, secondo alcuni, un aspetto positivo in tutto questo: la speranza che le masse inizino a prendere sul serio il problema e ad agire di conseguenza anche quando si tratta di scegliere le persone che le rappresentano.
Capisco l’auspicio ma, al momento, mi preoccupa soprattutto l’altra faccia della medaglia. E ovvero che, con l’attenzione al problema, cresca anche l’aspettativa-promessa di spiegazioni semplici e di soluzioni immediate: un’aspettativa che, se già era irrealistica per il covid, è del tutto insensata per un fenomeno sistemico, e di lungo decorso, come il cambiamento climatico.
E cosa succederà quando le soluzioni tarderanno ad arrivare o, addirittura, falliranno? In quali loop di frustrazione, rabbia, catastrofismo, rifiuto della realtà (che è una cosa diversa dall’attuale negazionismo climatico), irrazionalità ci avvilupperemo questa volta?
La questione è resa particolarmente problematica dal fatto che la crisi del clima non si “attenuerà” da sé, dopo due o tre anni, come per natura tendono a fare le pandemie. Non ci sarà un vaccino da inoculare o su cui litigare. Non c’è, e non ci sarà, un laboratorio sospetto, un governo o un “mercato dell’umido di Wuhan” su cui sfogare il sentimento popolare.
Parte del problema credo sia paradossalmente imputabile al fatto che ci siamo dati – giustamente – la “colpa” della crisi climatica. Un’assunzione di responsabilità non solo doverosa, ma fondamentale e indispensabile per attivare una risposta di qualche tipo. Essa tuttavia rischia di far passare l’idea che come abbiamo “creato” il problema, sapremo di certo anche risolverlo.
Riducendo un fatto “planetario” a un evento “antropico”, questa prospettiva colloca il tema del clima al centro dell’agone della litigiosità umana. Lo vediamo ogni giorno da anni. Lo vedremo sempre di più in futuro, man mano che il problema diventerà più visibile e più persone inizieranno a sentirlo con urgenza. Lo si intuiva l’altro-ieri, il giorno dopo il piccolo uragano di Milano, tra lo sgomento dei “non ho mai visto nulla di simile”, nella pancia dei social serpeggiava già una richiesta di rimedi “pronti all’uso” per evitare che, in futuro, si ripetano simili eventi. Una pretesa che, ovviamente, è una pia illusione.
La questione delle aspettative irrealistiche – e della litigiosità e della sfiducia che si genera quando esse vengono disattese – non è di poco conto. Ancor più di una pandemia, il futuro della crisi climatica ci pone davanti alla lunga traversata di un deserto di dubbi e incognite. Per avere qualche speranza di uscirne, non dico migliori, ma quantomeno “vivi”, dovremo affidarci alla capacità di coltivare solidarietà, pazienza ed empatia.
In una crisi che coinvolge l’intero pianeta, non ci saranno vittorie “campali” e decisive da festeggiare, bensì un lento processo di mitigazione e adattamento a nuove condizioni che richiederà una forte coesione sociale e un comune intendimento sulla natura del problema. Perché non è solo la violenza di una tempesta a determinare quanti danni farà ma anche la resistenza della struttura su cui si abbatte.