Il problema della sostenibilità dell’attività umana non riguarda solo il nostro pianeta ma anche lo Spazio che lo circonda, se è vero – ed è vero – che sono bastati 65 anni per riempirlo di spazzatura. Intorno alla sfera terrestre oggi ruotano (a una velocità di 25mila chilometri all’ora) circa 170 milioni di oggetti classificabili come rifiuti, per complessive 9.000 tonnellate di peso. Più che Space Jam, “space junk”.
In gran parte si tratta di detriti dovuti all’usura o alla distruzione di artefatti spediti in orbita dall’uomo. Una delle percentuali più consistenti della spazzatura spaziale è, per esempio, costituita da scaglie di vernice (meno di un cm di diametro) staccatesi dalle pareti di qualche satellite. Sembrano cose da nulla ma persino oggetti di dimensioni così minuscole possono causare danni ingenti a mezzi spaziali in caso d’impatto. Specie poiché tendono a compattarsi in piccole “nuvole”, note come “micro-meteoroidi”. Il film Gravity basa le premesse della sua vicenda su questo fenomeno.
Ma come ci è finita lì tutta quella roba?
La risposta è semplice. Abbiamo esagerato coi satelliti. Si calcola che, al momento, intorno al nostro pianeta orbitino circa tremila satelliti “morti” e oltre cinquemila satelliti in attività (quasi la metà dei quali è stata lanciata negli ultimi anni di brusca accelerazione della cosiddetta “space economy” – Chart: McKinsey).
Ma a cosa servono tanti satelliti?
A diversi scopi. Con alcuni abbiamo già familiarità (comunicazioni, GPS etc), e senza di essi la nostra società funzionerebbe molto diversamente da come funziona. Altri sono meno noti.
Per esempio non tutti sanno che tra le industrie a fare massiccio uso dei satelliti c’è anche la branca più speculativa della finanza: gli hedge fund. Cosa se ne fanno – vi chiederete – gli hedge fund dei satelliti? Parecchie cose in realtà. Per esempio monitorano l’andamento della domanda in un data area del mondo. Come? Osservando, tra le altre cose, i parcheggi dei centri commerciali. Sono pieni? L’economia va forte. Più di uno spazio vuoto? L’economia sta rallentando.
Un processo simile si può applicare a molte altre attività. Vogliamo scommettere sui prezzi dell’energia tra sei mesi? Studiamo dall’alto il livello di attività delle raffinerie. Abbiamo bisogno di previsioni sull’economia industriale di uno Stato prima che siano pubblicati i dati ufficiali? Osserviamo il flusso di container nei porti e otterremo informazioni sulle sue supply chain senza nemmeno chiedere. Come andrà il raccolto quest’anno? Una zoomata sui campi e lo scopriremo.
Esistono persino aziende di “satellite imagery” specializzate su singole regioni del mondo. La newyorkese SpaceKnow offre report verticali sull’industria cinese e pubblica un suo esclusivo indice chiamato China Satellite Manufacturing Index (CN SMI). Combinando diversi tipi di informazioni (immagini satellitari, rilevamenti sulla qualità dell’aria “street views”), è in grado di stimare l’andamento delle manifatture del gigante asiatico in un determinato periodo. Durante la recente pandemia, SpaceKnow ha saputo anticipare il calo della produzione cinese prima che fossero le agenzie ufficiali a comunicarlo.
(Cinema di propaganda in piena Reaganomics o anche…“quando non c’erano i satelliti”)
Come racconta una Poltrona per due, gli hedge fund svolgono attività d’investimento complesse, basate su “previsioni” e “scommesse”, in cui anche la più piccola asimmetria informativa rappresenta un vantaggio sugli altri attori del mercato. Ogni metodo per guadagnare tale vantaggio è dunque benvenuto. Il ricorso a immagini satellitari è uno di questi metodi. Non il più ortodosso (i dati raccolti in questo modo sono chiamati “alternative data”), ma ugualmente popolare.
Anche troppo popolare, a dire il vero. L’uso di immagini satellitari è ormai uno standard per l’intero settore finanziario ed è in crescita la richiesta di copertura di regioni o attività sempre più ampie e/o specifiche. E ciò, ovviamente, contribuisce ad aumentare il numero di satelliti in orbita.
Il fatto è che più l’ “orbita terrestre bassa” – la fascia tra i 300 e i 1000 km di distanza dalla Terra in cui gravitano i satelliti – si affolla di artefatti umani e maggiore è il rischio che uno di essi venga colpito da nuvole di detriti, generando ulteriori detriti e accrescendo, di conseguenza, il rischio di altri incidenti. E quindi nuovi detriti, maggiore rischio e così via.
Questo circolo vizioso ha un nome: “sindrome di Kessler”. Dal nome dello scienziato della NASA che, nel 1978, per primo ipotizzò che il problema della spazzatura spaziale avrebbe prima o poi raggiunto un punto critico, oltre il quale si sarebbe assistito a un domino incontrollabile di incidenti.
Non siamo ancora arrivati a quel punto critico ma se la situazione continuasse a questi ritmi, c’è il rischio che nel prossimo futuro non sarà più possible penetrare la cintura di detriti che ci circonda e inviare satelliti in orbita (con tutto ciò che ne conseguirebbe per il nostro sviluppo tecnologico). Ci troveremmo, insomma, bloccati a Terra: niente più miraggi di terraformare Marte o escapismi spaziali assortiti.
La cosa più preoccupante è che, come detto in precedenza, il numero di satelliti non accenna a diminuire ma anzi continua a crescere a ritmi esponenziali. Come detto, oggi i satelliti attivi sono circa 5mila ma, se tutto procede secondo i piani annunciati da diversi player dell’economia spaziale, si prevede che già nel 2030 ci saranno circa 100mila oggetti orbitanti.
In uno scenario del genere, secondo Helger Kreg dell’ESA, ci troveremmo ben “oltre il punto di non ritorno”. Perciò è diventato imperativo non solo smettere di condurre esperimenti missilistici che abbiano come bersaglio dei satelliti (tali esperimenti sono, di fatto, i “primi motori immobili” della spazzatura spaziale) ma cominciare attivamente a ripulire lo spazio.
A questo proposito si parla di “debris mitigation”, un’espressione in cui riecheggia lo stesso concetto di “mitigazione” di cui si parla in relazione ai fenomeni climatici. Per farsene carico, negli ultimi anni, sono comparse le prime aziende di netturbini spaziali.
Nel frattempo, lo scorso marzo la NASA ha pubblicato un documento in cui analizza i costi/benefici economici della rimozione dei detriti spaziali. La space junk infatti è un’esternalità col potenziale di incidere sul rendimento dell’intera economia spaziale. In un momento di grandi investimenti nel settore, sarà perciò utile, e molto remunerativo, calcolarne gli impatti finanziari per prevedere il futuro “costo” dei lanci.
Che dire? Pare proprio un lavoro da hedge fund.
Un longform del Financial Times sul tema dei detriti spaziali.
Planetes è un bellissimo manga del 2003. È ambientato nel 2075 e il suo protagonista lavora proprio nella rimozione dei rifiuti spaziali. Giapponese è anche una delle aziende oggi più promettenti del settore: Astroscale.
Sky-Fi è una società di “satellite imagery”. Qualche settimana fa è diventata più nota di altre aziende del settore per via di questa foto che ritrae una discarica di vestiti “fast fashion” nel deserto di Atacama in Cile. La discarica è visibile dallo spazio e la cosa ha fatto scalpore benché, purtroppo, discariche simili non siano affatto l’eccezione.
Un timelapse della terra vista dalla “bassa orbita” della Stazione Spaziale Internazionale.
La signora delle merci è il mio secondo libro. È uscito a maggio per LUISS University
Parla del ruolo della logistica e dei grandi trasporti nel mondo di ieri e di oggi. Parla di Amazon e di navi fenicie, di Alessandro Magno e di container, di supply chain e di economia spaziale, di guerre coloniali e di Repubbliche Marinare, di Keynes e di Friedman.
Sfiora anche gli argomenti di questa lettera, parla infatti di supply chain spaziali e della logistica necessaria a terra-formare Marte.
Qui una recensione di Alessandro Aresu su La Stampa e qui di Luca Picotti su Pandora Rivista.
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