Macro | 🇨🇳 "Sinae deterrenda est" 🇺🇸
La volontà americana di "contenere" la Cina è la cornice in cui accade la politica globale di questi anni. Alla base c'è una teoria della Guerra Fredda che vale la pena conoscere.
Benvenuti alla seconda lettera di Macro. Dopo la prima, soltanto introduttiva, mi sono chiesto quale fosse l’argomento più adatto per cominciare a fare sul serio. Una cosa mi era chiara: serviva un tema ampio, generale, influente. Una questione, come dicono quelli bravi, “sistemica”.
Stavo cercando l’idea giusta, quando mi sono imbattuto nel profilo twitter di Dimitri Alperovitch, un influente analista geopolitico americano di origini russe, e ho trovato questo tweet.
Esiste, oggi, nella politica internazionale, un fenomeno più influente della volontà americana di “deterrere” la Cina? Risposta: no. È la cornice dentro cui si svolgono i grandi fatti del nostro tempo, dalla guerra in Ucraina alla riorganizzazione dell’economia globale, dalla corsa all’AI all’adattamento al cambiamento climatico.
Di questo fenomeno, il tweet di Alperovitch è tra le formulazioni più evocative che ricordi, anche per la citazione (in latino maccheronico) del celebre “Carthago delenda est” di Catone. Un riferimento che dona alla contesa sino-americana il sapore dello scontro egemonico epocale. Con la differenza che, al tempo delle guerre puniche, la posta in gioco era “solo” il piccolo Mediterraneo e i mezzi della contesa erano “solo” daghe e triremi.
A colpire, nel tweet di Alperovitch, è soprattutto il cosiddetto “tone of voice”. Che rappresenta alla perfezione il linguaggio, sempre più assertivo e dogmatico, con cui un’ampia fetta dell’intellighenzia Americana, da Biden in giù, si esprime sulla questione cinese.
Ma da dove viene tale tono? Su quali fondamenta poggia l’imperativo categorico, quasi kantiano, di quel “must be” ripetuto per due volte da Alperovitch? Siamo qui per raccontarlo.
Il peso delle “dottrine”
È difficile comprendere il tweet di Alperovitch senza prima parlare del termine intorno a cui, da due secoli, gli USA costruiscono il senso della propria azione nel mondo. Quel termine è “doctrine” e indica il nucleo di principi e visioni che dà forma alla strategia politica (interna ed estera) degli Stati Uniti in una determinata epoca. In altre parole, la “dottrina” definisce ciò che ogni amministrazione ritiene interesse primario degli Stati Uniti nel periodo storico in cui governa.
Una volta elaborata e resa pubblica (la divulgazione è una parte fondamentale della sua efficacia) , una dottrina diviene il prisma attraverso cui il potere americano osserva il mondo, la leva con cui lo muove e il linguaggio con cui si comunica. Agire o (anche solo esprimersi) in modo scoordinato rispetto a questo principio ordinatore (“the central organizing principle”) può sabotare carriere e far perdere posizioni guadagnate a fatica. Per questo motivo ogni “dottrina” impone una certa ortodossia – si potrebbe dire: un certo conformismo – al pensiero (geo)politico americano e, di riflesso, incentiva atti performativi di ostentata, e iper-zelante, adesione a essa.
La prima dottrina nella Storia degli USA è la “dottrina Monroe” che proprio questo dicembre compie due secoli. Tuttavia da quando, nel dopoguerra, gli Stati Uniti hanno ottenuto onori e oneri da egemone, ogni presidenza ha espresso la propria. La più significativa, in sé e per i riflessi sul contemporaneo, è la “dottrina Truman” (annunciata dall’omonimo presidente nel marzo del 1947). Essa pose i binari lungo cui, per 42 anni, viaggiò la politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica.
La “dottrina Truman” rese esplicita al mondo l’intenzione americana di garantire “supporto alle democrazie contro le minacce dei regimi autoritari”. E fu solo dopo che essa venne enunciata che, si può dire, cominciò davvero la Guerra Fredda. E che, nel 1949, si formò la NATO.
L’ “articolo X”
La “dottrina Truman” non nacque dal nulla. Nei primi mesi del dopoguerra, in America competevano diverse idee sul modo di affrontare il “problema sovietico”. Alcune peroravano una politica di distensione e la ricerca di un punto di equilibrio con Stalin. Altre sostenevano la necessità di andare all’offensiva e cercare di rovesciare il regime prima che fosse troppo tardi. Un articolo pubblicato da Foreign Affairs nel luglio del 1947, col titolo “The Sources of the Soviet Conduct”, perorava infine una terza via.
L’autore, che si firmava con lo pseudonimo X (motivo per cui l’articolo è ancora oggi ricordato come “the X article”), era George Kennan (sopra in foto), un brillante diplomatico 43enne che, tra il 1944 e il 1946, era stato operativo a Mosca. Dove aveva potuto osservare da vicino la natura più profonda dell’imperialismo sovietico, maturando l’idea che la migliore strategia per affrontarlo, fosse di imporre al Kremlino un lungo confronto di logoramento. Un confronto che portasse naturalmente a emerge le fragilità e le contraddizioni del modello sovietico.
Per ottenere questo obiettivo, secondo Kennan era necessario “un paziente, ma fermo e vigile, contenimento delle tendenze espansioniste russe”. Un’azione che, in termini concreti, si tradusse in quell’offerta di “supporto e difesa” alle democrazie (nacque in questo contesto l’espressione “free world”, “mondo libero”) che, come visto, risiedeva al cuore della “dottrina Truman” e della stessa NATO. Era nata la “dottrina del contenimento”.
Il contenimento
Con il termine “contenimento”, Kennan indicava la necessità di reprimere qualunque manovra di espansione del comunismo oltre i territori già in suo controllo. Le modalità del contenimento si dovevano adattare ai vari contesti e, alle varie tipologie di “espansionismo” sovietico. Esse potevano esprimersi in modo militare, economico, commerciale o anche “solo” culturale. L’essenziale era di riuscire a opporre una barriera ai tentativi di avanzata comunista.
Nelle parole dello stesso Kennan:
«It will be clearly seen that Soviet pressure against the free institutions of the Western world” through the “adroit and vigilant application of counter-force at a series of constantly shifting geographical and political points, corresponding to the shifts and maneuvers of Soviet policy».
La dottrina del contenimento era basata su due solide prerogative. La prima era una notevole dose realismo. A differenza di altri analisti coevi, Kennan riteneva impensabile rovesciare il regime sovietico e, al contempo, giudicava pericoloso scendervi a patti. La seconda era una notevole conoscenza del “nemico”, frutto del profondo studio di Kennan – di tipo non solo politico ma anche culturale e letterario – dell’identità e della psiche russa (e, in particolare, del modo in cui essa aveva introiettato il marxismo “come una razionalizzazione molto conveniente dei propri desideri istintivi”).
Nonostante la prudenza a cui invitava, e la sua profondità analitica, durante la Guerra Fredda la dottrina del contenimento causò diversi “effetti collaterali”. Su tutti la guerra del Vietnam che, di fatto, ne fu un frutto impazzito. Sostenendo la necessità di contrastare il comunismo su ogni terreno – per evitare che delle avanzate anche solo regionali scatenassero un “domino incontrollabile” – la “dottrina del contenimento” fu corresponsabile della miopia con cui gli americani scambiarono il movimento di liberazione di Ho Chi-minh, per una dogmatica rivoluzione marxista.
Fu per contrastare quella rivoluzione “che non lo era”, e tamponare un eventuale “effetto domino” nell’Indocina, che gli Stati Uniti perseverarono in una guerra moralmente ingiustificabile. Tutto questo per dire che, soprattutto nelle sue applicazioni più conformiste (come la “domino theory), la dottrina del contenimento fu complice di diversi errori ed orrori già durante la Guerra Fredda.
Il contenimento, settanta anni dopo
Via via che, a partire dagli anni Sessanta, le vulnerabilità dell’USSR divennero evidenti, la dottrina del contenimento si fece meno reattiva e più pro-attiva, raggiungendo l’apice dell’aggressività con Reagan e il cosiddetto “rollback”. Con la fine della Guerra Fredda, la necessità del contenimento venne infine meno ma non per questo la dottrina fu del tutto accantonata.
Dopo gli anni dell’ “engagement and enlargement” di Clinton e la “war on terror” neo-con di Bush Jr., le idee di Kennan vennero rispolverate da Obama. La cui visione di un’America meno “world policeman”, andava di pari passo con l’idea che gli USA “contenere” la crescita di “poteri regionali” tale da essere in grado, in futuro, di contendere l’egemonia globale agli Stati Uniti. È anche così che si spiega il celebre, e mai del tutto riuscito, “pivot to Asia” obamiano.
(Il più celebre e, per ovvie ragioni, oggi discusso uso dell’espressione “regional power” da parte di Obama)
Attraverso il loro recupero all’interno della “Obama doctrine” (e in parte, seppure in modo più sguaiato e verbalmente violento, in quella Trumpiana), le idee di Kennan e la “dottrina Truman” fecero il loro ingresso nel XXI secolo e oggi sono più influenti che mai. Costituiscono, di fatto, una delle principali dorsali della recente politica estera americana. Al punto che, a fine 2020, il Pentagono ha prodotto un documento strategico sulla Cina che cita il famoso articolo di Kennan su Foreign Affairs, parafrasandolo con il titolo di “The sources of China’s conduct”.
I limiti della “dottrina”
I motivi della longevità della “dottrina Kennan” sono intuibili. Sono in fondo le stesse idee che hanno consentito all’America di “vincere” la Guerra Fredda. E non solo. Sono teorie basate su un principio di “minimo attrito” che le rende facili da giustificare politicamente (rispetto per esempio alle “endless wars” di Bush). I loro presupposti “realisti” le fanno sembrare concetti suffragati da semplice buon senso geopolitico (e in effetti, in alcuni, lo sono). Non troppo azzardati né troppo compiacenti.
Ma si può davvero applicare il principio del contenimento – così com’è – alla Cina, come sembrano suggerire Alperovitch e innumerevoli altri? Ci sono molte buone ragioni per essere scettici.
La principale è che laddove la Guerra Fredda proponeva una contrapposizione tra due blocchi chiaramente contrapposti, antagonisti e alternativi, a tutti i livelli – politico e sociale, economico e ideologico – la situazione odierna eredita dal precedente periodo di iper-globalizzazione molte più zone grigie che confini netti.
Negli ultimi decenni, la cosiddetta divisione internazionale del lavoro ha fatto sì che la Cina sia oggi niente affatto separato dalle economie occidentali, come invece era l’URSS ma anzi abbia instaurato con essi forti nessi d’interdipendenza, come si legge quotidianamente in merito alle varie supply chain. Di recente lo ha mostrato con grande efficacia una mappa dell’Economist, molto circolata online, che sottolinea come oggi la maggior parte del mondo abbia la Cina, e non gli Stati Uniti, come primo partner economico-commerciale.
La difficoltà di “contenere” un paese con cui si hanno numerose relazioni non sfuggiva del resto allo stesso Kennan. Nel famoso “lungo telegramma” inviato da Mosca a Washington nel febbraio 1946 (la bozza dell’articolo X per Foreign Affairs dell’anno successivo), egli scriveva:
«Our stake in this country, even coming on heels of tremendous demonstrations of our friendship for Russian people, is remarkably small. We have here no investments to guard, no actual trade to lose, virtually no citizens to protect, few cultural contacts to preserve.»
Intorno al pericolo rappresentato dall’espansionismo dell’URSS c’era inoltre un ampio e convinto consenso quasi ovunque nel mondo (e di certo tra i più stretti alleati degli Stati Uniti). Viceversa le opinioni internazionali sulla Cina appaiono (finora) molto più varie e sfumate. Così come la Cina non si è costituita come un blocco in contrapposizione al resto del mondo (lo dimostrano iniziative come la celebre Belt and Road), il resto del mondo non si percepisce come un blocco in contrapposizione alla Cina.
Insomma, se durante la Guerra Fredda era a tutti chiaro cosa si stesse “contenendo”, oggi lo è molto meno. Ciò non è vero solo in paesi politicamente vicini alla Cina ma anche nel cuore dell’Europa – la mancanza di un compatto fronte anti-cinese è emersa sia in Francia che in Germania – e dell’ASEAN, dove la Cina è principale partner commerciale e dove (a parte ovviamente Taiwan) nessuno, considerata la lunga tradizione non-espansionistica del gigante asiatico, considera davvero la Cina una credibile minaccia alla propria sovranità territoriale. Una paura che invece l’URSS scatenava lungo ogni confine.
Questa percezione ovviamente potrebbe cambiare nel momento in cui Xi Jinping dovesse fare un passo concreto per annettere Taiwan ma la verità è che, al momento, la “dottrina del contenimento 2.0” si è scontrata col fatto che il mondo attuale è molto più articolato, interconnesso e liquido rispetto a quello di 80 o anche solo 30 anni fa.
Il rischio che l’insistenza su una politica da “nuova” Guerra Fredda, faccia più danni che altro alla posizione degli Stati Uniti nel mondo è concreto. Oltre alle reticenze emerse, più o meno esplicitamente, in Europa, lo dimostra il crescente consenso che si sta raggruppando intorno alla formazione di un nuovo movimento di paesi non-allineati. Un tema a cui si lega l’insofferenza che un numero crescente di paesi extra-occidentali dimostra per il “privilegio” del dollaro nel sistema finanziario-monetario internazionale. Un’insofferenza che la soprammenzionata mappa del’Economist aiuta a inquadrare meglio.
Cultura e bilanciamento
C’è infine un ultimo tema. E ovvero che la “dottrina del contenimento” era, come detto, frutto delle analisi estremamente profonde, acute e informate di un’eccezionale osservatore della Russia e del suo tempo come Kennan.
Secondo i critici più severi, invece, oggi dietro la “lettura” americana della Cina, non ci sarebbe un pensiero di pari qualità, cultura e profondità. In sua assenza ci si rivolgerebbe dunque, e pigramente, a vecchi ferri del mestiere, già collaudati e di comprovato successo, anche se in una situazione e in un’epoca molto diverse.
Negli ultimi tempi, l’amministrazione Biden sembra aver colto le difficoltà nel far passare, all’interno come all’esterno, il messaggio del “contenimento” (nonché l’oggettiva complessità di metterlo in pratica) e ha iniziato a smussare alcuni angoli dialettici. Al posto di promuovere un totale decoupling dall’economia cinese, ha iniziato a parlare di derisking (ovvero: una riduzione della dipendenza solo per le industrie più avanzate e strategiche).
Soprattutto, anziché insistere sul vecchio vangelo del contenimento, nelle ultime settimane Biden (boutade elettorali, o forse gaffe senili, su Xi Jinping a parte) è tornato a usare il vocabolario “cinese” con cui aveva inaugurato la sua presidenza. Anziché sfoggiare un lessico da teste di cuoi, ha cominciato a parlare di una strategia basata sul “balancing” (bilanciamento) tra “engagement” (un vecchio residuo lessicale della “dottrina Clinton”) e “containment”.
E se fosse proprio questa parola – “bilanciamento” – quella con cui un giorno ricorderemo la “dottrina Biden”?
Per un approfondimento culturale sul periodo di Kennan e della Guerra Fredda, consiglio The Free World: Art and Thought in the Cold War. È un mattone ma scritto talmente bene che scivola via.
Una visione ante-litteram dei limiti della politica del contenimento applicata alla Cina, la forniva nientemeno che il “perfido” Henry Kissinger già nel 2005. La potete leggere qui.
Per una rivisitazione della “domino theory” e del Vietnam, il consiglio è sempre Fog of War, il film/intervista a Robert McNamara (così dopo Kissinger… l’en plein), realizzato da Errol Morris nel 2006. Questo il trailer.
La signora delle merci è il mio secondo libro. È uscito a maggio per LUISS University
Parla del ruolo della logistica e dei grandi trasporti nel mondo di ieri e di oggi. Parla di Amazon e di navi fenicie, di Alessandro Magno e di container, di supply chain e di Spazio, di guerre coloniali e di Repubbliche Marinare, di Keynes e di Friedman.
Parla anche degli argomenti di questa lettera: della “Guerra Fredda” tra Cina e USA di decoupling e derisking.