Macro | 🎬 Cent'anni di potere "morbido" 🎬
A un secolo dalla "nascita" di Hollywood, e nell'età di Netflix, si può ancora parlare di "soft power" del cinema USA?
Il 13 luglio 1923, giusto un secolo fa, sopra un’anonima collina nei dintorni di Los Angeles, si inaugura una grande scritta bianca contornata da quattromila lampadine. Illuminandosi a blocchi in sequenza, tambureggiano un messaggio contro la macchia selvosa: prima HOLLY, quindi WOOD, infine LAND.
Lungi dall’avere a che fare col cinema, la scritta promuove un progetto edilizio: una proto-suburbia per il giovane ceto benestante californiano. Solo per caso, proprio da quelle parti, comincia a muovere i primi passi anche l’industria americana dell' “abbagliante spettacolo delle immagini in movimento”.
Nei suoi primi decenni, la “settima arte” è praticata soprattutto in Europa da cineasti francesi e tedeschi, i quali vi si applicano con sperimentazioni pregne di velleità artistiche. Lo loro pellicole riflettono, direbbe Tocqueville, i sofismi del gusto che il retaggio dell’aristocrazia impone a tutto ciò che si realizza nel Vecchio Continente. Gli Americani non conoscono e anzi disconoscono tale retaggio. E così, quando il neonato cinema europeo finisce sotto le macerie della Prima Guerra Mondiale, sono ben felici di aprirgli le porte. Lo spogliano degli anacoluti e lo fanno proprio. Lo rendono arte popolare e, soprattutto, commerciale.
Passano gli anni Venti, gli anni Trenta, passa anche la seconda guerra mondiale, e il simbolo HOLLYWOODLAND è ancora lì, ma ormai in rovina. A fine anni Quaranta, bisogna decidere se rimuoverlo o restaurarlo. Viene restaurato ma senza più LAND. Solo HOLLYWOOD. Mito collettore di miti, nasce così, quasi per caso, il marchio della più potente macchina per immaginari della Storia.
Nel dopoguerra, il cinema è l’arma “segreta”, una delle più decisive, degli Stati Uniti nel confronto con l’Unione Sovietica. È il veicolo attraverso cui l’America esporta i propri valori, con un’efficacia a cui non può ambire alcuna “dottrina” politica, modello economico o propaganda esplicita. Hollywood è la fabbrica in cui gli USA forgiano il proprio stesso mito, a uso e consumo dell’intero pianeta. Al punto che numerosi occidentali degli anni del boom conoscono meglio la Storia del West che quella del loro Paese.
Tra anni Cinquanta e Sessanta, i film di Hollywood “scolpiscono” le versioni definitive di eventi fondamentali della Storia americana, a cominciare dalla seconda guerra mondiale. Per milioni che la “rivivono” attraverso film come Il giorno più lungo, essa viene vinta… dai soli Americani. Per ragioni legate alla Guerra Fredda, si rimuove quasi del tutto il contributo dell’Unione Sovietica sul fronte orientale (la propaganda dell’URSS, a ogni buon conto, fa lo stesso nei territori sotto il proprio controllo).
Un filo rosso che attraversa i decenni lega John Wayne a John Rambo (denuncia ma anche riscatto dal Vietnam in piena “Reagan era”), il Tom Cruise di Top Gun all’Arnold Schwarzenegger di True Lies, il Will Smith di Independence Day (un grande classico dell’ “unipolar moment”) al Robert-Downey Jr. di Iron Man.
Tutto questo ha un nome: “soft power”. Il “potere morbido” che, attraverso le immagini e l’immaginazione plasma la visione del mondo di milioni, a volte miliardi. Dando, a sua volta, vita a quella grande costruzione socioculturale che è il “senso di realtà” degli individui e delle collettività; quel che Antonio Gramsci chiamava “egemonia culturale”.
La capacità di influenza di Hollywood non è mai stata una proprietà accidentale del cinema americano. È noto come, già nel 1927, in occasione della realizzazione del pluripremiato Wings, si saldi un legame tra l’industria cinematografica di Los Angeles, in quegli anni in ascesa, e vari apparati della sicurezza e della difesa di Washington. Un legame che, ovviamente, si intensifica durante la guerra, sotto l’auspicio dell’War Information Office. Il cui direttore, Elmer Davis, scrive queste parole a Roosevelt nel 1942.
«The easiest way to inject a propaganda idea into most people's minds is to let it go through the medium of an entertainment picture when they do not realize that they are being propagandized».
Gli intrecci tra Hollywood e il potere politico-militare americano, tra soft e hard power, non sono del resto mai stati negati né nascosti. È per esempio di dominio pubblico che, a metà anni ‘90, la CIA creò un dipartimento impegnato nella “cura” della sua immagine filmica.
Più di recente, è noto il coinvolgimento di varie branche dell’esercito americano in saghe multimiliardarie come Transformers e lo sconfinato Marvel Cinematic Universe. I cui numerosi film tendono a “suggerire” alcuni precisi panorami geopolitici. Nei primi anni Dieci furono, per esempio, proprio i film della Maverl a reintrodurre al pubblico l’idea che il mondo russo/slavo (ritratto con una palette grigio-marrone), rappresentasse una minaccia per l’Occidente superiore al terrorismo islamico.
Nel genere supereroistico, il potere degli Stati Uniti viene presentato sotto vesti quasi messianiche, e i supereroi americani come l’ultima linea di difesa da minacce planetarie totalizzanti. Un personaggio come Capitan America rappresenta, fin dal nome, l’apoteosi più smaccata di tale narrazione salvifica. E non potrebbe essere altrimenti, data la sua storia editoriale. Capitan America nasce infatti nel 1940, come strumento di propaganda anti-nazista e, durante la Seconda Guerra Mondiale, la sua immagine è usata per sollecitare l’arruolamento.
Tuttavia, oggi, la capacità di creare “mitologie” collettive e di dare la sensazione del “grande evento cinematografico” – due ingredienti fondamentali per sprigionare soft power – ha ormai un costo molto elevato. Dei cento film con un budget superiore ai 150 milioni di dollari, solo due sono usciti prima del 2000 e solo 13 prima del 2010. Un film come Avengers: Endgame del 2019 è costato ben 356 milioni di dollari. E sì, certo, ne ha incassati molti di più ma cosa sarebbe successo se, contro ogni aspettativa, avesse floppato (come per esempio appena accaduto con il sequel di Avatar)?
L’aumento dei costi dei super-film dell’ultimo decennio, ha spunto Hollywood vicino a un punto di potenziale crisi/rottura degli equilibri finanziari su cui, finora, si era retta la sua capacità di sedurre.
Per sopravvivere a questo fenomeno, gli Studios hanno iniziato un processo di “integrazione verticale” che ha portato all’emergere di cinque grandi conglomerati (Universal, Paramount Pictures, Warner Bros., Disney, e Columbia); ciascuno sostenuto da leve finanziarie enormi e caratterizzato perciò da obblighi estremamente pressanti verso il mercato.
Ciò significa che ogni volta che uno Studios scommette nella produzione di “un grande film”, i ritorni devono essere altrettanto grandi. E perché ciò accada, da almeno un decennio, non è più sufficiente sbancare il botteghino solo in Occidente, bisogna farlo anche nei mercati globali emergenti. Su tutti la Cina, ormai il primo mercato anche per quanto riguarda il consumo di film. Negli ultimi anni, dalle parti di Hollywood è perciò diventata d’obbligo una grande attenzione alla sensibilità del governo di Pechino (i film stranieri devono passare il vaglio della censura prima di approdare nelle sale della Cina e il numero dei film americani che la supera è, anno dopo anno, sempre più esiguo).
Nel 2019 ha fatto scalpore la rimozione delle bandiere di Giappone e Taiwan dal giubbotto di Tom Cruise in un trailer di Top Gun: Maverick (dopo che la censura cinese ha deciso di vietare la distribuzione del film in Cina, le bandiere sono state reinserite nella versione finale). Più di recente qualcuno ha notato che nel film Barbie si vede una mappa del Mar Cinese Meridionale che rappresenta un famigerato contenzioso geopolitico, precisamente nei modi in cui Pechino lo vorrebbe risolvere.
Questi sono solo due tra i molti esempi nel vasto bestiario di compromessi tra Hollywood e la censura cinese. Un catalogo destinato ad allargarsi via, via che le tensioni tra Stati Uniti e Cina continuano a crescere – o forse a restringersi del tutto se in futuro il cinema americano venisse del tutto bannato dagli schermi cinesi.
Proprio il successo di Top Gun: Maverick, che lo scorso anno è riuscito a incassare un miliardo di dollari senza, appunto, passare dalla Cina, ha mostrato, secondo alcuni, che Hollywood può produrre super-film anche senza dipendere dal pubblico cinese. Vero, ma solo in parte. La realtà infatti è che, senza la possibilità di contare sull’enorme scala del mercato cinese, i super-film a cui Hollywood ci ha di recente abituato, sarebbero (saranno) giocoforza molto più rischiosi e difficili da finanziare, ergo rari. Il che, è evidente, decreterebbe (decreterà), di per sé, un indebolimento della capacità americana di plasmare l’immaginario globale.
La co-dipendenza di Hollywood dal paese che, a tutti gli effetti, è il principale rivale geopolitico di Washington non è l’unica ragione per cui, rispetto al passato, il soft power cinematografico americano ci appare appannato. L’altro grande fattore in gioco è la comparsa, nell’ultimo decennio, di un nuovo grande giocatore nel campo dell’intrattenimento visivo: Netflix (e, più in generale, le piattaforme di streaming).
Per via del suo modello di business – basato, tra l’altro, sull’ammortare globalmente i costi di produzione nei singoli territori – Netflix ha ampliato i confini di ciò che centinaia di milioni di spettatori guardano in tutto il mondo. Alcuni dei suoi programmi più visti in assoluto sono coreani (Squid Game, Kingdom), spagnoli (La casa di carta), tedeschi (Dark). Sono perciò portatori e rappresentanti di culture, narrazioni e sensibilità che, sì, passano attraverso la formattazione del marchio Netflix prima di atterrare sulla piattaforma, ma comunque incarnano prospettive eccentriche, e “altre”, rispetto al “centro” americano e alla sua capacità di controllare le rappresentazioni del contemporaneo.
E non c’è solo questo aspetto. Internet e i social media hanno trasformato in modo profondo il mercato dell’attenzione e il modo in cui, in Occidente e non solo, si fruisce l’intrattenimento. Al posto della “monocoltura” dell’epoca televisiva, per cui tutti guardavano pressapoco le stesse cose, sempre di più oggi ognuno di noi vive immerso in bolle, più o meno ampie e condivise, d’interessi specifici. E, se fino a qualche anno fa, serie come Game of Thrones e film come, appunto, i cine-comics, erano riusciti a creare una qualche forma di interesse collettivo, più ci si allontana dall’età televisiva e dalle sue abitudini (anche per ragioni anagrafiche e demografiche) e più si fatica a immaginare prodotti in grado di generare quel livello di coinvolgimento collettivo che, come detto, è ingrediente senza il quale il soft power più difficilmente può esprimersi.
E, del resto, la ragione per cui oggi i super-film che puntano a essere “grandi eventi cinematografici” devono riuscire a essere davvero sensazionali, diventando quindi super-costosi, ha a che fare, anche, con la segmentazione del pubblico introdotta dai nuovi media e dalla concorrenza delle piattaforme. Una segmentazione per cui, ogni briciolo di attenzione in più, costa oggi esponenzialmente di più che in passato e così via. Siamo di fronte al più classico caso di “rendimenti decrescenti”. Con effetti che non solo colpiscono gli stessi cine-comics e la capacità americana di produrre immaginario politicamente, e culturalmente, fungibile ma anche l’economia delle piattaforme di streaming.
Un articolo di Vulture sulle recenti difficoltà economiche di Netflix, qualche settimana fa raccontava come la mega-piattaforma, che ha finora “campato” proprio sul mercato dell’attenzione post-televisivo e post-monoculturale, starebbe in realtà cercando di sperimentare con forme di intrattenimento più tradizionali, quasi vintage, come brevi sit-com, in stile Seinfeld e Friends, talk show e così via. Questo perché Netflix si è resa conto che quei tipi di prodotto rappresentano fonti d’incasso più affidabili e durature, sono cioè “scommesse più sicure” in termini finanziari, rispetto alla “pesca a strascico” internazionale di contenuti a cui Netflix si dedica.
E tuttavia, notava sempre l’articolo, una volta che le abitudini della massa vengono “disrupted” è quasi impossibile fargliele recuperare. Bisogna accettare che il mondo ha voltato pagina. Questo vale per le vecchie televisioni, per Netflix e, probabilmente, anche per l’influenza “soft” di Washington (perlomeno quella tramite il soft power di Hollywood).
Un mio vecchio (e lungo) articolo sulla trasformazione di Hollywood che ha portato allo sviluppo dei cine-comics e della “età del sequel”. Anche se molte cose sono superate, resta utile per capire come sono cominciati, tra la fine degli anni Zero e l’inizio degli anni Dieci, alcuni fenomeni che hanno caratterizzato il cinema degli ultimi anni.
La Guerra Fredda riletta attraverso i film prodotti in quegli anni da USA e URSS.
Un interessante articolo sul concetto di “monocoltura” e sul modo in cui algoritmi e social hanno cambiato le nostre abitudini di consumo culturale.
Un bellissimo contributo multimediale sull’influenza culturale del cinema di John Ford e, in particolare, del film The Searchers.
La signora delle merci è il mio secondo libro. È uscito a maggio per LUISS University
Parla del ruolo della logistica e dei grandi trasporti nel mondo di ieri e di oggi. Parla di Amazon e di navi fenicie, di Alessandro Magno e di container, di supply chain e di Spazio, di guerre coloniali e di Repubbliche Marinare, di Keynes e di Friedman.
Parla anche degli argomenti di questa lettera: della “Guerra Fredda” tra Cina e USA di decoupling e derisking.