[SAVE THE DATE: Domani sera, mercoledì 15 novembre alle 18.30, presso la Triennale di Milano dialogo con la scrittrice franco-algerina Louisa Yousfi sul tema “integrazione e nuovi cittadini”.
Domenica 19 novembre alle 12.30, in occasione di Book City Milano, presentiamo invece il mio libro La signora delle merci con Paolo Iabichino presso ADI Design Museum]
Benvenuti alla carrellata di “brevi” – riflessioni, segnalazioni e commenti a notizie o idee rilevanti – di questa settimana.
Hamas è l’ISIS o i Viet Cong?
Numerosi responsabili della guerra in Vietnam, incluso l’allora Segretario della difesa Robert McNamara, hanno in seguito ammesso che il principale errore di valutazione degli USA fu di scambiare i Viet Cong per un movimento ideologico in cui la componente comunista era il movente prevalente. In ossequio alla loro “dottrina del contenimento”, questa valutazione spinse l’America a impegnarsi a fondo perché il Vietnam non diventasse comunista, causando un effetto domino nella regione. Viceversa col tempo divenne chiaro che a motivare i Viet Cong era soprattutto la volontà di resistere all’oppressivo e corrotto regime del Vietnam del Sud. Di fatto si trattava di un’insurrezione nazionalista, rispetto alla quale il comunismo rappresentava soltanto una “religione laica”, nel senso mazziniano del termine.
Da solo l’elemento internazionalista e utopico dell’ideologia comunista non sarebbe bastato per sostenere l’enorme forza di volontà della guerriglia vietnamita. Non furono, insomma, dottrine astratte e distanti ma problemi locali e concreti a rendere “invincibili” i Viet Cong.
Nell’ultimo mese si è parlato, ovviamente, molto di Hamas, ponendo l’accento sulla componente di “fondamentalismo islamico” che essa innegabilmente contiene. In tal senso non sono mancati gli accostamenti all’ISIS, tanto che l’espressione “Hamas-ISIS”, tutto d’un fiato, è diventata una costante della comunicazione di Netanyahu. Accostare Hamas all’ISIS è funzionale a Israele per almeno tre ragioni: 1) rimarca la brutalità degli attacchi del 7 ottobre, 2) associa Hamas a un movimento fondamentalista che sembrava inarrestabile e invece è stato quasi del tutto eradicato e quindi, 3) fa passare l’idea che, se si applica abbastanza distruzione e violenza allo scopo, sia possibile polverizzare qualunque organizzazione ideologica.
E tuttavia vale la pena domandarsi – come ha fatto l’esperto di Medio-Oriente Emile Hokayem, in un recente episodio del podcast “Rachman Review” del Financial Times: è davvero l’ISIS il miglior metro di paragone di Hamas o è invece più calzante un paragone proprio coi Viet Cong (ai quali Hamas ha peraltro “copiato” l’idea dei tunnel)?
La domanda non è fine a se stessa ma pone una questione centrale per l’attuale situazione di Gaza. Se si ritiene che, come l’ISIS, la forza di Hamas risieda in una grande narrazione universalista sul ruolo dell’Islam nella Storia, allora è ragionevole pensare che una volta colpiti i simboli di tale narrazione (leader del movimento etc) si possa in effetti sradicare Hamas da Gaza. Dopotutto le grandi narrazioni quando crollano lo fanno con fragore e senza lasciare spore. Si pensi al modo in cui, entrata in crisi la “grande” narrazione comunista soggiacente, persino un gigantesco apparato come quello Sovietico è imploso in pochi mesi, senza che nessuno abbia tentato di riportarlo in vita da allora.
Viceversa se si crede che le ragioni per l’esistenza di Hamas siano simili a quelle che motivavano i Viet Cong – ovvero una forma di resistenza, specifica e altamente “situata” a un altro soggetto politico, il Vietnam del Sud allora, Israele oggi – beh… diventa difficile immaginare in che modi e in che tempi Israele potrà dire di aver “eliminato” Hamas. Almeno finché non si risolvono le ragioni sistemiche che alimentano tale resistenza, Hamas o un’organizzazione con scopi e metodi equivalenti risorgerà sempre dalle sue ceneri. È anzi probabile che l’appeal della causa di Hamas esca rafforzato, come l’Idra, da una campagna militare tanto cruenta. E dunque se si pensa, come ritengo sia giusto fare, che il fondamentalismo fine a se stesso non sia affatto il nucleo fondamentale di Hamas, credo sia doveroso anche domandarsi quale siano gli obiettivi di Israele in questa guerra?
È quello che si chiede anche Hokayem nel podcast di cui sopra. Se – dice Hokayem – l’eliminazione di Hamas come fenomeno non è realisticamente pensabile, perlomeno finché continueranno a sussistere le ragioni politiche, altamente specifiche, della sua “causa” (incluse quelle esterne a Gaza, come il sostegno dell’Iran), a cosa stiamo assistendo e assisteremo, temo, ancora a lungo? In che modo si potrà giustificare un simile livello di sofferenza umana, se quello che Israele ha posto come proprio obiettivo finale si dovesse rivelare, come è probabile, non realistico né tantomeno raggiungibile con gli strumenti della violenza? È una domanda terribile, a cui qualcuno dovrà dare una risposta prima o poi.
P.S. A questo punto dovrei aggiungere che le frange – della politica, del dibattito e del giornalismo – che in Italia tendono a dare credito all’equivalenza mistificante Hamas = ISIS, sono le stesse per cui ogni conflitto in cui si trova coinvolto l’Occidente è da inserire nel più ampio catalogo degli “scontri di civiltà”: una visione semi-medievale del mondo e delle sue frizioni che ha fatto più danni della grandine anche allo stesso Occidente.
Sapete cosa sono gli SRT?
Ve lo diciamo subito: SRT sta per Synthetic Risk Transfer, un prodotto finanziario derivato inventato nel 2001 da alcune banche europee, ma la cui diffusione sta aumentando esponenzialmente negli ultimi mesi.
Spiegare esattamente come sono confezionati gli SRT non è facilissimo. Per semplificare, diciamo che li possiamo paragonare a polizze assicurative, che consentono alle banche di ridurre la quantità di capitale di riserva che sono tenute ad avere in “pancia”, a causa di regolamentazioni del mercato finanziario introdotte nel post-2008.
Attraverso gli SRT, le banche “coprono” una parte della loro esposizione, trasferendo a terze parti (fondi pensioni, hedge fund etc) il rischio della fornitura di credito. In altre parole: se l’investimento va male, la banca recupera i soldi chiedendoli ai soggetti a cui ha venduto l’SRT. Lo scopo, come detto, è liberare capitale da destinare a investimenti, capitale che altrimenti sarebbe rimasto “immobilizzato” per ragioni regolamentari, dimostrando agli organi regolatori che ha un piano B per recuperare, in ogni caso, quel capitale.
Gli SRT sono rimasti a lungo uno strumento finanziario poco noto e utilizzato quasi soltanto in Europa, anche perché la FED non li vedeva di buon occhio. Di recente tuttavia le cose sono cambiate: l’aumento dei tassi d’interesse per combattere l’inflazione, accompagnato a un ulteriore stretta regolamentare seguita alla fallimento di Silicon Valley Bank, ha spinto sempre più banche d’investimento americane a chiedere alla FED di poter utilizzare gli SRT. Il risultato è che negli ultimi mesi il ricorso agli SRT, negli Stati Uniti, sta crescendo in modo costante (seppure sorvegliato dalla FED) mentre in Europa, dove l’utilizzo era già diffuso, si è registrato un ulteriore picco negli ultimi mesi.
Il tutto mentre giornalisti ed osservatori del mercato fanno notare come, seppure in una clima regolamentare più attento rispetto a quello eccessivamente disinvolto degli anni 2000, il tipo di sovrastruttura finanziaria che rischiano di costruire gli SRT ha inquietanti somiglianze con quella dei subprime alla base della crisi del 2008.
Come ha sintetizzato il giornalista del Wall Street Journal, Matt Wirtz: “gli SRT aumentano il livello di complessità del mercato e ciò può sempre portare a conseguenze inattese”.