Il denaro e la moneta sono cose ben strane,
vanno di continuo su e giù e nessuno sa dir perché.
(Gilles li Muisis, Abate di Tournai, 1349)
Sono passati più di due anni da quando l’inflazione ha colpito le nostre società. Come scrivevo nella Macro di lunedì scorso, il fenomeno è stato all’inizio attribuito al dissesto pandemico, tra piogge di denaro “gratis” e riduzione della produttività legata ai problemi delle supply chain.
Fino a un anno fa, era lecito pensare che si trattasse solo di questo: che l’inflazione fosse un’anomalia transitoria, dovuta a una situazione eccezionale come il combinato pandemia + guerra. Dopo trenta mesi, e innumerevoli interventi di FED e BCE, e provvedimenti straordinari per fermare il decorso della malattia, appare chiaro che, sì, il covid è stato il “primo motore immobile” dell’inflazione, ma il fenomeno ha ormai vita propria ed è spia di squilibri più profondi nel sistema economico globale.
È giunto il momento di farsi delle domande e di guardare, indietro e avanti nel tempo, per cercare le risposte. La prima domanda è: cosa ci vuole dire questa inflazione? Qual è il segnale in mezzo al rumore? La seconda domanda, come vedremo legata alla prima, è: siamo sicuri che la si possa combattere con le “armi” di sempre?
Se guardiamo alla Storia, scopriamo che le grandi inflazioni del passato sono coincise con momenti di profonda trasformazione, non solo dell’economia ma del pensiero economico. Pensiamo all’inflazione del XVI secolo, legata all’impatto sull’economia europea (e non solo), dei metalli preziosi estratti dagli spagnoli nelle Americhe. Anche a causa della scellerata gestione della monarchia spagnola, quell’inflazione non solo erose le fondamenta economiche dell’ “Impero su cui non tramonta mai il sole” ma creò i presupposti per il (lento) formarsi di una nuova concezione di valore e ricchezza e, con esse, della moderna economia politica.
Se fino al Cinquecento, la ricchezza si misurava in lingotti e monete nei forzieri, a cominciare dalle riflessioni di Jean Bodin (e non solo) sull’effetto dei metalli americani, si comprese come l'aumento della quantità d’oro non costituisse di per sé garanzia di ricchezza. Quando l’oro e le monete aumentava in modo smisurato rispetto alle cose che ci si potevano comprare, alla lunga perdevano di valore e, di conseguenza, il prezzo delle cose cresceva.
In altre parole si comprese che la ricchezza non era una proprietà intrinseca ma relativa, e insita nel rapporto tra gli oggetti scambiati e i medium con cui li si scambiavano. La moneta era il “linguaggio” della ricchezza, non la ricchezza in sé. Può sembrare una banalità ma fu una conquista intellettuale pregna di conseguenze a lungo termine. Dopo il tramont del mercantilismo (per molti versi ancora legato a “vecchie” idee di accumulazione), la riscoperta delle intuizioni di Bodin etc. sgomberò il campo alla fisiocrazia, al concetto smithiano di “ricchezza delle nazioni”, alle prime teorie del valore e all’economia politica liberale che è alla base dell’interazione tra democrazia e mercato.
Due secoli dopo Adam Smith, sul finire degli anni ‘60, le due grandi democrazie anglosassoni, Stati Uniti e Inghilterra, sperimentarono una forte ondata d’inflazione. A posteriori viene ricordata come “the Great inflation”. Nella sua scia caddero vittime illustri come gli accordi di Bretton Woods e, nel lungo periodo, persino lo status quo macroeconomico del dopoguerra. Fu infatti la “grande inflazione” (in coabitazione con la crisi energetica) a mostrare, in modo inequivocabile, che qualcosa si era incrinato negli equilibri tra domanda e offerta, capitale e lavoro, salari e produttività che, perlomeno in Occidente e Giappone, avevano caratterizzato i cosiddetti “miracoli economici”.
Nei primi anni ‘70, la FED cercò di ricomporre il disequilibrio con gli strumenti, di ispirazione keynesiana, che, dal New Deal in poi, avevano sempre fornito risposte alle crisi. Terrorizzati che l’inflazione precipitasse in recessione e disoccupazione (cosa che, in molti paesi, comunque fece), gli economisti inizialmente consigliarono di iniettare nuovo denaro nel sistema, nella speranza che stimolasse un aumento della produttività e ristabilisse l’equilibrio tra domanda e offerta. In realtà peggiorarono le cose. Cresciuti con una visione dell’economia che imputava ogni crisi ad aberrazioni contingenti della domanda, non videro che quell’inflazione non aveva nulla di contingente. Era anzi profondamente sistemica e interessava soprattutto l’offerta.
Di fronte all’inefficacia dei “vecchi rimedi”, se ne fecero avanti di “nuovi”. Tra cui quelli di un professore dell’università di Chicago, Milton Friedman. Secondo Friedman, il solo modo per ridurre l’inflazione era un drastico giro di vite delle politiche monetarie, seguito dall’astensione dall’intervento pubblico, a deficit, nell’economia.
Quello proposto da Friedman, e da altri economisti della sua “area”, era un totale ribaltamento di prospettive. Da economie basate sul sostegno ad occupazione e domanda, si passava ad economie basate sull’aumento di efficienza dell’offerta e sulla conseguente riduzione dei costi di produzione (e dunque dei prezzi), assicurata da economie di scala e di scopo, rese possibili dall’allargamento dei mercati (dei capitali e del lavoro) e dall’aumento delle tipologie di prodotti.
Chiamatela supply side economics o neoliberismo, a questa filosofia dobbiamo alcuni dei principali fenomeni socioeconomici degli ultimi 40 anni, dalla globalizzazione alla de-industrializzazione dell’Occidente, dalla finanziarizzazione delle economie avanzate alla trasformazione della Cina in superpotenza industriale. Spesso tuttavia ci si dimentica come, alla base di tutto questo processo ci fu, a conti fatti, anche (se non soprattutto) il tentativo di risolvere una crisi inflativa.
A posteriori possiamo dire che il “messaggio” insito nei problemi accusati dal “medium denaro” durante la Great Inflation degli anni ‘70, fosse essenzialmente questo: ad eccezione di Germania Ovest e Giappone, il dinamismo dell’economia industriale di massa, in Occidente si era storicamente esaurito. La soluzione fu esportarlo nelle “periferie” del sistema globale (oggi non più tanto “periferie”) e procedere a trasformare i “centri” (oggi, e in futuro, sempre meno “centri”) in erogatori/gestori di servizi (finanza, marketing, ricerca etc.) ad alto valore aggiunto, complementari a quello spostamento.
Il che ci riporta alla domanda iniziale: qual è il messaggio dell’odierna inflazione? E perché, a chi osserva, pare che gli economisti di oggi, si stiano comportando come gli economisti degli anni ‘70: ovvero stiano cercando di domare una creatura nuova con dei lazzi prestati da altre epoche?
Proprio come gli economisti di 50 anni fa si concentravano più sui sintomi che sulle cause dell’inflazione, e non riuscivano a concepire un’inflazione che non avesse origini contingenti e “curabili” con politiche dis-inflazionistiche di breve respiro, i banchieri centrali di oggi sembrano in grado di concepire soltanto strumenti di lotta all’inflazione che sono parenti stretti delle politiche monetarie che “funzionarono” negli anni Settanta.
Pochi sembrano porsi il problema di cosa davvero “significhi” questa inflazione, in chiave di evoluzione storica e politica. Il che è… problematico, visto che l’inflazione, quando diventa ostinata, è, quasi sempre, l’ultimo cavaliere dell’Apocalisse dei cicli economici.
In tal senso una domanda interessante – e che in un certo senso contiene già una risposta – l’ha posta Stefano Feltri durante una puntata di Globo. In quell’occasione Feltri, che sull’inflazione ha scritto un libro, si chiedeva: «ma siamo sicuri che l’economia post-covid sia una torta grande quanto l’economia pre-covid?». Ovvero che si possa tornare a produrre, e consumare, ai livelli a cui eravamo abituati prima del 2020? E questo non perché la pandemia sia stata in sé un evento così catastrofico e destabilizzante, ma perché il suo shock, per quanto temporaneo, ha definitivamente fatto emergere criticità cruciali, ma in parte ancora sopite, del nostro sistema economico.
Alcune di esse hanno, peraltro, a che fare con l’eredità della “grande inflazione” degli anni Settanta. Quelle che oggi sono entrate in crisi, e stanno contribuendo all’inflazione, sono, infatti, alcune parti del “pacchetto” di soluzioni adottato per risolvere quella crisi. A cominciare dai sistemi di produzione globale, che non sono solo stati messi in ginocchio dal covid e dalla crisi energetica ma, oggi, sono al centro di grandi tensioni geopolitiche nel quadro della contesa tra Stati Uniti e Cina.
Di fatto, in un contesto di crescita redistribuita con meno efficacia, come gli ultimi decenni, il Re (dei prezzi) non appariva nudo soltanto perché le strutture produttive diffuse erano, come detto, disegnate per contenere gli effetti dei costi di manifattura sui prezzi. Questo ha significato, tuttavia, “scontare” molte esternalità negative che oggi non è invece più possibile ignorare. È il mondo a non consentirlo più. I nodi ecologici, energetici e geopolitici (e aggiungerei anche: etici e sociali) della iper-globalizzazione sono giunti al pettine. E con essi sono riemersi problemi che il regime di crescita degli ultimi 40 anni aveva mascherato.
È presto per dire se quest’inflazione, come taluni auspicano, si rivelerà in parte “buona” e in parte “utile”. Ovvero se l’aumento dei prezzi stimolerà una crescita della produttività, dei salari e una migliore redistribuzione attraverso il lavoro, e spingerà l’economia verso un nuovo punto di equilibrio. Di sicuro il cambiamento nei processi produttivi, se avverrà, avrà un effetto ampio e generalizzato sui costi di produzione e dunque sui prezzi dei consumi e, infine, sulle scelte degli Stati in materia di spesa pubblica (i soldi per reindustrializzare vanno tolti a qualche altra voce). Per citare le parole usate da Alessandro Aresu in un altro bel podcast, I Dialoghi di Pandora: dobbiamo cominciare a considerare i “costi di un mondo diviso” (dal minuto 21.42).
A questi problemi se ne aggiungono altri. L’iper-finanziarizzazione degli ultimi decenni e le politiche espansive del post-2008-2011 hanno “creato” triliardi di dollari che sono stati “pesati”, e contabilizzati, in modo irrealistico rispetto al loro reale valore e alla loro effettiva produttività. I loro effetti più strampalati erano da tempo sotto gli occhi di tutti. Le decine di miliardi scommessi, negli anni Dieci, su economie digitali spesso traballanti, le “truffe” alla SBF, il collasso di Silicon Valley Bank, le bolle di cripto e NTF, la gamification della finanza erano altrettanti riflessi di questo fenomeno. Di una economia di “riciclo”, in cui il denaro veniva spesso trattato come fosse aria fritta (in alcuni casi: letteralmente), giustificando paradossalmente gli argomenti anti-fiat money, dei “criptovalutisti”.
Questa inflazione sembra presentarci il conto di queste “stravaganze”, che oggi pesano tanto sotto forma di cattivo debito quanto di "eccesso” di domanda. Con una provocazione potremmo dire che, nel cuore delle economie occidentali, sta ricomparendo un po’ della polvere che negli ultimi decenni avevamo nascosto sotto il tappeto (o sparpagliato in giro per la stanza, per restare più aderenti al meccanismo operativo della iperglobalizzazione).
Nella sua fase acuta, l’inflazione potrebbe anche rientrare ma, lungi dall’essere l’anomalia che si credeva all’inizio, essa è in realtà l’avvisaglia di un “nuovo normale” con cui dovremo abituarci a convivere. Una “novità” che richiede pensieri nuovi, ricette nuove e una strategia di “mitigazione” che di tipo sociale, essendo l’inflazione “tassa iniqua” per eccellenza.
È, soprattutto, un “nuovo normale”, in cui l’Occidente non è più il (solo) centro del mondo. E dunque non può proporre, e imporre unilateralmente, soluzioni alle sue crisi come fece negli anni ‘70. Se lo farà, e in parte lo sta facendo, rischia di accelerare il processo di delegittimazione delle sue istituzioni-roccaforti finanziarie.
E questa, in fondo, suppongo sia un’altra delle cose che “ci vuole dire questa inflazione”.
Si può essere un genio capace di anticipare di uno o due secoli innumerevoli concetti della modernità occidentale – incluso, come detto, quello dell’inflazione – e allo stesso tempo essere fermamente convinto dell’esistenza di demoni e streghe? Sì, se sei nato nel Cinquecento e ti chiami Jean Bodin.
Banconote da centomila miliardi?!?! Giravano in Zimbabwe nel 2008. Una collezione delle monete più svalutate dell’ultimo secolo (c’è, ovviamente, anche la cara vecchia lira).
Milton Friedman “spiega” l’inflazione, recandosi in un villaggio di cercatori d’oro abbandonato (dal famoso Free to choose). Comunque la si pensi sul personaggio, resta la fotografia di un “mondo” e di un importante momento storico.
Il problema della Cina al momento non è l’inflazione ma il suo opposto.
La signora delle merci è il mio secondo libro. È uscito a maggio per LUISS University
Parla del ruolo della logistica e dei grandi trasporti nel mondo di ieri e di oggi. Parla di Amazon e di navi fenicie, di Alessandro Magno e di container, di supply chain e di Spazio, di guerre coloniali e di Repubbliche Marinare, di Keynes e di Friedman.
Parla anche di alcuni degli argomenti di questa lettera: della crisi inflativa degli anni Settanta, dell’ascesa della supply-side economics e delle sue conseguenze per la formazione delle supply chain globali (e quindi per l’ascesa della logistica).