[Giorni fa ho scritto una lettera che spiega le ragioni “laiche” per cui ritengo un errore, morale e politico (o meglio: politico poiché morale), che l’Occidente, l’Europa (di cui parliamo appunto oggi), e l’Italia continuino ad avallare quanto sta accadendo a Gaza. È un errore perché dimostra un “doppiopesismo” che non solo è sbagliato in generale ma è particolarmente miope in questo momento storico. Il tutto senza in alcun modo relativizzare le azioni di Hamas o negare il diritto di Israele a esistere e tutelare la propria sicurezza. Se vi va, la trovate a questo link, altrimenti proseguite per un pieno di Europa. E buon 1 Novembre!]
Il primo novembre 1993, trent’anni esatti fa, entrava in vigore il Trattato di Maastricht. Esso stabiliva i cosiddetti “tre pilastri” dell’Unione Europea: 1) la creazione di un mercato comune, 2) la formulazione di una politica di difesa condivisa, 3) l’aumento della cooperazione in tema di giustizia e politica interna.
Maastricht rappresentava la fine di un lungo periodo di gestazione dell’idea di Europa e l’inizio della sua incarnazione in prassi ed istituzioni concrete. Una trasformazione che la grande maggioranza dei cittadini europei accolse con entusiasmo.
Sono passati trent’anni e le cose, non c’è bisogno di dirlo, non sono andate come sperato. Negli ultimi decenni l’Europa è stata investita da gravi crisi, le tendenze centripete si moltiplicano e, nel suo complesso, l’Unione fatica a mostrarsi all’altezza delle sfide che le si presentano.
Un compleanno così tondo, è quindi l’occasione ideale per tirare un bilancio dello “Stato dell’Unione”. A partire proprio dalle condizioni in cui troviamo oggi i tre pilastri – economia, difesa e diritto – che Maastricht poneva a fondamento della UE.
Economia e mercato.
Il fronte più problematico di questi primi tre decenni di “convivenza” europea è stata, senza dubbio, l’economia. Il nocciolo della questione è la concezione del debito, con da una parte i paesi del Nord, portatori di una visione inflessibile dei “conti a posto” – un impasto di teoria neoliberale ed etica protestante – e dall’altra i paesi mediterranei, in testa l’Italia, indebitati in modo ormai cronico.
Il golfo tra queste due mentalità era, come noto, già inscritto nelle regole fiscali di Maastricht, dogmaticamente rigide sul rapporto tra crescita e debito, deficit e PIL, e si è allargato durante la crisi dei primi anni Dieci. In quell’occasione si è prodotta una spaccatura tra la posizione dei paesi “frugali” del Nord, guidati dalla Germania di Merkel e Schäuble, e quelli del Sud, accusati (non sempre a torto) di voler vivere “al di sopra dei loro mezzi”. Se le argomentazioni dei due campi riportavano l’orologio della Storia europea addirittura alle diatribe tra papisti e luterani del XVI secolo, le conseguenze di quel confronto a botte di stereotipi non sono state solo economiche ma anche politiche, sociali e culturali.
Si può discutere dei meriti e del buon senso della pulizia finanziaria perorata dal Nord ma è innegabile che essa sia stata direttamente responsabile della crescita dei nazionalismi populisti degli anni Dieci. Non solo, essa ha minato la possibilità di coagulare un accordo intorno a una leadership tedesca convincente e popolare, anziché divisiva, in merito allo sviluppo economico dell’Unione. Una leadership che, negli anni di Merkel, era diretta conseguenza dell’eccezionale salute dell’economia di Berlino e che oggi, nel mondo della post-globalizzazione, pare invece molto meno scontata.
Con la risposta finanziaria al covid, l’Europa ha dimostrato, in primis a se stessa, che dietro le regole di Maastricht c’era un grado di austerità dogmatica che si sarebbe potuto, con maggiore sensibilità politica, negoziare già all’epoca della crisi del debito. Il problema del recovery fund semmai, e lo stiamo vedendo in Italia, è che rischia di essere una pioggia di denaro priva di pianificazione strategica sul modo di spenderlo.
In assenza di una credibile leadership in tema di economia e politica industriale – la grande occasione persa dalla Germania negli anni Dieci – i soldi del recovery fund rischiano di finire a tappare buchi più che creare opportunità, a finanziare interessi specifici dei singoli paesi, a sostenere campioni nazionali sub-efficienti, a creare ingorghi di capitale…. a scapito di un disegno complessivo che consideri invece quali siano i vantaggi competitivi delle singole aree economiche che compongono l’Europa. Un disegno che sarebbe molto opportuno soprattutto in un momento storico come questo, in cui il sistema industriale globale sta mutando pelle per ragioni legate alle politiche energetico-climatiche e alla crescente frammentazione geopolitica.
La situazione economica della UE è aggravata da ulteriori circostanze. La prima è la crescente pressione, esterna ed interna all’Unione, a rompere i nessi d’interdipendenza industriale con la Cina, una pressione che sembra particolarmente nociva per l’economia tedesca, con tutto ciò che può comportare per l’Europa la crisi del suo motore produttivo. La seconda è che mentre l’Europa fatica a sconnettersi dalla Cina – come le chiede l’alleato americano da cui dipende per la difesa (vedi sotto) – e stenta a trovare una prospettiva strategica di rilancio comune, gli stessi Stati Uniti hanno messo in atto un proprio piano di re-industrializzazione domestica, spalleggiato da una politica di sussidi talmente spinta da essere, secondo gli europei, in flagrante violazione delle norme del WTO.
Aldilà di tanti discorsi e piani finora poco o nulla implementati, c’è il rischio che la UE si ritrovi in mezzo al guado tra disaccoppiamento dalla Cina e superiore competitività Americana. E finisca così per perdere capacità industriale in settori chiave, per esempio quelli legati alla transizione energetica, e per diventare sempre più dipendente da costose forniture tecnologiche prodotte dalle due superpotenze.
Difesa, sicurezza, autonomia
Problemi di dipendenza e autonomia non affiorano solo in ambito economico ma anche in quello politico e militare. Per limiti costituenti e per la difficoltà di conciliare le prospettive dei suoi membri, l’Unione Europea non è mai stata in grado di articolare un progetto di politica estera e una struttura di difesa coerenti.
Fino a qualche anno fa, ciò non costituiva un grande limite. Gli europei si cullavano nell’idea che guerre e violenze fossero eccezioni, relegate ormai nelle periferie degli imperi. L’auto-inganno era comprensibile e, in un certo senso, intessuto nella stoffa stessa dell’Unione. Le radici intellettuali del progetto europeo non affondano forse nel cosmopolitismo kantiano della “pace perpetua”? E le sue ragioni storiche non hanno a che fare con l’imperativo di pacificare un continente responsabile di ben due guerre mondiali?
È comprensibile quindi che la UE si sia tenuta a distanza dal linguaggio e dagli strumenti del potere propriamente detto. A cullare il pacifismo, spesso piuttosto passivo dell’Europa, ha contribuito l’ombrello difensivo (e lo scudo atomico) degli Stati Uniti. Oggi tuttavia le cose stanno diversamente. Non solo la guerra è tornata ad affacciarsi alle porte del continente ma l’Europa non può più permettersi di affidarsi ciecamente alle garanzie di sicurezza degli USA. Trump o meno, l’America sta cambiando ed è sempre meno “europea” anche demograficamente. Le attenzioni degli americani sono ormai puntate sul Pacifico e sulla Cina e sempre più gli USA chiedono all’Europa di “fare la propria parte” per difendersi dalle minacce esterne.
Ma cosa significa per l’Europa “fare la propria parte”? E a chi compete guidare i processi che porterebbero ad arrivare a farla? E quanta e quale potenza militare, gli USA sono davvero disposti a concedere alla UE? E cosa comporta un riarmo, in termini simbolici, morali, e anche economici, per un continente che si è concepito come “post-bellico” per oltre mezzo secolo?
In questi anni, i più attivi nel cercare le risposte, sono stati i francesi. E non poteva essere diversamente. Non solo la Francia, dopo la Brexit, è l’unica potenza nucleare rimasta nella UE ma è anche il solo paese con la figura, e la tradizione politica, richiesta dal ruolo.
Macron parla di “autonomia strategica” europea dai tempi di Trump ma, aldilà delle formule, il contenuto e le modalità di tale autonomia paiono sfuggenti. Come può un’Unione di Stati, con geografie, priorità di sicurezza, schemi di alleanze e d’inimicizie del tutto diversi, ragionare strategicamente all’unisono? La guerra in Ucraina sembra aver fornito qualche risposta positiva in merito, dopotutto il continente si è mosso in modo abbastanza coeso nel sostegno al paese aggredito, ma la domanda è: sarebbe andata nello stesso modo, anche senza una leadership americana a guidare il fronte della contro-offensiva?
Se fosse stato“soltanto” uno Stato europeo a guidare la mobilitazione, l’esito sarebbe stato lo stesso? O sarebbero invece emerse, in modo più evidente, le spaccature tra le diverse posizioni sulla guerra e avrebbero cantato più forte alcuni notevoli interessi economici in merito alla relazione con la Russia?
C’è poi un paradosso che riguarda squisitamente la relazione della UE con gli USA e la NATO. E ovvero: nel momento in cui gli Stati Uniti chiedono all’Europa di cominciare un percorso di emancipazione dalla difesa americana, fino a che punto sono disposti ad assecondare questo percorso? Per tornare al discorso economico, e alle pressioni che gli Stati Uniti stanno esercitando sull’Europa per rompere alcune relazioni commerciali-industriali con la Cina, è legittimo chiedersi: una UE più autonoma dall’America, per quanto riguarda la sicurezza, sarebbe ancora così facilmente persuadibile a seguire i “suggerimenti” strategici degli USA in ambiti terzi, come appunto l’economia? Una UE meno dipendente dagli USA continuerebbe a scegliere con la stessa ortodossia il totale allineamento atlantico, soprattutto in un momento in cui questo rischia di risultare meno vantaggioso di un tempo? E tutto questo starebbe bene agli americani? Difficile. È insomma evidente che, nella testa degli americani (eccezionalità trumpiana a parte) esista un limite “non detto” ma di sicuro già ben preciso, nell’invito alla UE a camminare con le proprie gambe. Un limite oltrepassato il quale, l’intera relazione tra USA e UE potrebbe anche cambiare di segno.
Ma questi sono scenari davvero troppo distanti. La realtà attuale è che l’Europa, al momento, è a malapena capace di difendere i propri interessi, di determinare una propria politica estera e di parlare con una voce univoca, credibile e autorevole. Lo si vede tragicamente in questi giorni di crisi mediorientale in cui è parsa a tutti evidente la mancanza di peso specifico dell’azione diplomatica europea e le divergenze di opportunismi e posizioni tra gli Stati membri, evidenziate dalle diverse opinioni in merito alla risoluzione ONU di pochi giorni fa.
C’è infine un altro problema inerente al raggiungimento di una vera e propria autonomia strategica europea. Il primo è di ordine economico: riarmarsi costa, e non poco, e richiede tecnologie che l’Europa non sempre è in grado di produrre autonomamente. E dunque la domanda è: a che prezzo avverrebbe il riarmo? A scapito di quali altri spese, in un continente oltretutto piagato da un tasso di crescita economica sempre più avvizzito? Il che ci riporta di nuovo nell’ambito dell’economia e delle scelte industriali. È infatti evidente che un’Europa strategicamente dipendente dal punto di vista produttivo e tecnologico non potrà mai essere davvero strategicamente autonoma dal punto di vista della difesa e della politica estera. A dimostrazione di come, nell’attuale diagramma “problemi-opportunità” della UE, tutto si tenga con tutto il resto, in una specie di cubo di Rubick in cui ogni mossa va studiata tenendo conto dell’insieme di tutte le altre.
Leggi, norme, sovranità
Tutti i problemi dell’Unione Europea finora discussi hanno una radice comune: la mancanza di una chiara definizione istituzionale di cosa sia l’Unione. Gli estensori di Maastricht avevano lasciato volutamente sullo sfondo questa questione, convinti che il processo di unificazione e la prassi quotidiana dell’europeizzazione, avrebbero fatto il dovuto per compattare i diversi stati membri in un unico soggetto politico sufficientemente coerente da risultare funzionale.
Pia illusione. La mancanza di una vera e propria legittimazione democratica, le modalità tecnocratiche con cui l’Europa si palesa e si esprime nelle vite dei cittadini, l’incapacità di dissociare in modo chiaro le politiche dell’Europa dagli interessi dei suoi membri più influenti hanno finito per alienare il progetto dell’Unione a un numero enorme di europei.
L’Europa ha oggi lo stesso problema che si è voluto eludere trent’anni fa (e ancora prima negli anni ‘50) nella speranza che si risolvesse da solo: un problema di sovranità e di legittimazione. È un problema spinoso e quasi intrattabile. Il tema della sovranità chiama in causa l’ontologia politica più profonda degli Stati membri, e dunque la loro stessa “ragion d’essere”. In questo preciso momento storico, inoltre, un eventuale aumento di sovranità dell’Unione Europea difficilmente avrebbe i numeri per legittimarsi per via democratica (leggasi: difficilmente gli europei di oggi voterebbero per aumentare la sovranità delle istituzioni europee a scapito di quella dei loro paesi). È un gatto che si morde la coda.
La mancanza di una vera e propria sovranità dell’Unione, in grado di prevalere sui conflitti tra gli interessi dei singoli paesi, si palesa, come abbiamo visto, nell’economia, nella politica estera, nella difesa, nelle scelte industriali. Si palesa anche nella mancanza di un gestione efficace e solidale – all’altezza dell’immagine “civilizzatrice” che l’Europa vuole trasmettere al mondo – dei flussi migratori, con tutto ciò che tragicamente ne consegue per le stragi del Mediterraneo.
Una delle poche eccezioni a questo canovaccio sono le normative digitali. Un ambito in cui l’Europa è riuscita a essere autorevole e innovativa, sostenendo battaglie di avanguardia e non di retroguardia. L’esempio più recente è l’ EU AI act, con cui l’Europa sta mettendo a punto la prima regolamentazione al mondo in materia di uso ed abuso delle intelligenze artificiali. Un atto importante, non solo a livello pratico ma anche simbolico, e che ricorda come uno dei ruoli che la UE potrebbe ritagliarsi nel mondo è quello di “equilibratore”. Dato il peso economico dell’Unione, le norme europee hanno il potere di influenzare per “effetto network”, più o meno direttamente, le modalità e le pratiche tecnologiche anche di superpotenze come quella cinese e americana. Superpotenze che – per ragioni di competizione reciproca, di modello socio-politico o di forma mentis iper-concorrenziale – tendono a essere più spregiudicate rispetto ai mezzi e all’etica del proprio sviluppo. È per esempio importante e meritorio il fatto che l’Europa sia una delle più convinte, e convincenti, sostenitrici della necessità di istituire una agenzia mondiale dell’AI (sul modello di quella dell’energia atomica).
E tuttavia anche sul fronte del digitale e della tecnologia, non si può fare a meno di notare come ci sia un golfo tra le intenzioni dichiarate e la realtà dei fatti. Da quasi cinque anni, ciclicamente ai più alti livelli della burocrazia europea si parla della “sovranità digitale europea” come di un traguardo realistico, ma nel frattempo ben poco è stato fatto per raggiungerla. Dagli aspetti infrastrutturali più invisibili e complessi a quelli più scontati e tangibili nella nostra esperienza quotidiana (i social che usiamo, i provider di email che utilizziamo etc), è evidente come l’intera vita, ed economia, digitale dei cittadini europei dipenda pressoché interamente da servizi forniti da grandi aziende straniere, perlopiù americane o (sempre più spesso) cinesi. Il che, ça va sans dire, è una notevole vulnerabilità strategica.
Porsi come obiettivo la “sovranità digitale” è nel breve periodo – e forse anche nel lungo – del tutto irrealistico. E non fa altro che esporre, e sottolineare ancora di più, la povertà dell’industria tecnologica del continente, rispetto a quella di alleati e competitor, e la sua elevatissima “dipendenza digitale”, una dipendenza che ha risvolti sociali, tecnologici, economici e militari. Il che ci riporta di nuovo al nostro cubo di Rubik, al pendolo tra una crescente necessità di autonomia che caratterizza l’Europa degli anni Venti, e la realtà di un continente che, senza quasi rendersene conto, ha sviluppato, a partire dal dopoguerra, una enorme, e preoccupante, dipendenza dal mondo per tutto ciò che concerne tutto i suoi bisogni più strategici e complessi.