Macro | 🏌️♀️ Guerre del golf e guerre mondiali 🏌️♂️
Un periodo popolare per lo sport più elitario del mondo, il compleanno NATO tra Gaza e Ucraina e i paralleli tra oggi e la Prima Guerra Mondiale.
La politica delle buche
Il golf non è uno sport popolare. Non lo è – oserei dire – in nessuna accezione del termine. È anzi uno sport piuttosto di nicchia per seguito, e decisamente elitario per costi. Eppure di recente il golf è stato trending topic nell’ambito della politica elettorale, ed economica, degli Stati Uniti.
I motivi sono due. Primo: intorno al golf, e all’abilità nel praticarlo, è girato uno degli scambi più tragicomici del dibattito Trump-Biden di fine giugno (di cui, per altre ragioni, ho scritto anche qui).
Vale la pena tradurre e riportare lo scambio come un dialogo teatrale, poiché in forma scritta se ne coglie tutta la carica surreale.
Trump: Ho appena vinto due Club Championship. E non quelli per anziani. Due normali Club Championship. Per farlo devi essere piuttosto sveglio e devi riuscire a mandare la pallina molto lontano. E io ci riesco. Lui no. Non riesce a mandare una pallina a più di 50 yard (circa 45 metri, ndR). Mi ha sfidato a fare una partita ma non riesce a mandare una pallina oltre le 50 yard. […]
Biden: Sarei felice di fare una partita con lui. Quando ero vicepresidente il mio handicap era sotto il sei.
[Trump ride.]
Biden (guardando Trump): Te l’ho già detto. Sarei felice di giocare a golf. Basta che tu sia in grado di portarti la borsa da solo. Pensi di farcela?Trump: Questa è la più grande bugia di tutte: che aveva un handicap sotto il sei.
Biden (confuso): Avevo un handicap di… otto… otto.
Trump: Mai successo. Mai. Ho visto il tuo swing. Ho presente il tuo swing.
Aldilà di questo momento che resterà ai posteri come un grottesco memento della crisi della democrazia americana, il golf è divenuto tema sensibile anche per un’altra ragione, più aderente alle questioni che abitualmente tratto su Macro. Ovvero la richiesta, da parte di diverse aziende americane produttrici di golf cart (le macchinine con cui ci si muove per i campi) di aumentare del 100% le tariffe sulle importazioni di golf cart dalla Cina.
La richiesta è stata motivata col fatto che le golf cart sono, a tutti gli effetti, “auto elettriche” e dal momento che il governo Biden ha deciso di imporre dazi al 100% sull’import di veicoli elettrici dalla Cina, a rigor di logica dovrebbe fare altrettanto per le golf cart.
Negli ultimi anni Jake Sullivan – National Security Advisor di Biden nonché artefice di numerose politiche sui temi della sicurezza industriale – ha ripetuto spesso che gli Stati Uniti non intendono interrompere le interazioni economiche con la Cina “in generale”, ma semplicemente tutelare i propri interessi in alcune specifiche industrie strategiche, in particolare quelle attinenti allo sviluppo della difesa (i chip sono tra queste).
Sullivan ha spesso ripetuto che gli Stati Uniti vogliono attuare una politica di sanzioni e tariffe basata sul principio “small yard, high fence” (piccolo cortile, alto steccato). Un’espressione per spiegare come gli USA mirassero a proteggere poche industrie molto specifiche ma con grande forza.
Ebbene: al momento non sappiamo cosa decideranno di fare Biden e i suoi (incluso Sullivan) in merito ai golf cart e, anzi, la notizia può apparire curiosa, quasi buffa, ma la verità è che occorrenze del genere ci ricordano quanto sia difficile, una volta che si comincia a scendere la china delle guerre commerciali, tornare sui propri passi o anche solo definire – e soprattutto giustificare ai propri industriali – cosa rientri, o meno, nel campo degli interessi vitali. Con buona pace di cortili, steccati e “buone” intenzioni, lasciata abbastanza corda al protezionismo può finire per diventare “strategico” persino l’innocente golf cart.
La NATO, Kiev e Gaza
Come sapete, a Washington si sono festeggiati i 75 anni della NATO. In termini storici, 75 anni possono essere tanti o pochi, per la NATO negli ultimi anni sembrano diventati tantissimi e queste celebrazioni sono state circondate da interrogativi e malesseri di varia origine. Come sta Biden? Che succede se Trump viene rieletto?
Le cose non vanno meglio fuori.
Mentre a Washington i leader NATO festeggiavano, pochi giorni prima Orban conduceva trattative non si sa a quale titolo con Putin. La Cina (denunciata dal summit NATO come “facilitatore” delle ostilità in Ucraina) partecipava a operazioni militari congiunte con la Bielorussia ai confini della Polonia. La Russia bombardava oscenamente un ospedale pediatrico di Kiev. La rivista scientifica Lancet pubblicava una stima secondo cui il numero di morti a Gaza potrebbe superare le 180mila persone – in larghissima maggioranza civili – una cifra pari all’8% della popolazione locale.
Queste ultime due notizie in particolare appaiono tragicamente correlate.
In molti si domandano come possa la NATO condannare il barbaro attacco di Kiev mentre alcuni dei suoi membri di punta, incluso il suo leader, non fanno nulla per fermare il macello di Gaza? Il re appare ormai troppo nudo e persino i media occidentali più ottusi (o collusi) stanno cominciando a rendersi conto dell’insostenibilità morale, politica e strategica di questa contraddizione, che mina alla base non solo la credibilità dell’ordine internazionale che l’Occidente e la NATO vorrebbero preservare, ma anche la sua appetibilità per tutta quella vasta parte di pianeta che – dall’India al Sudamerica all’Africa – non ha ancora scelto in che “squadra” giocare ma che di certo non guarda con simpatia il doppiopesismo della sfera NATO.
Su Macro ne scrivevo a pochi giorni dall’inizio degli attacchi su Gaza:
[…] i paesi occidentali, incluso il nostro, dovrebbero pensarci due volte prima di fornire sostegno materiale e morale al tipo di guerra che Israele sta conducendo a Gaza. Dovremmo anzi usare la distanza, anche emotiva, dal trauma per aiutare Israele a non imboccare una strada pericolosa in primis per se stesso.
E non solo per ragioni etiche ma anche per ragioni politiche e pragmatiche. Assetti e regole del (nuovo) mondo del presente e del futuro si stanno (ri)scrivendo in questi anni, in cui nuovi attori possono proporsi come credibili alternative al modello occidentale, in termini di sviluppo e di potere. E se vogliamo che il mondo che non ha ancora preso una posizione netta tra le varie alternative – un mondo enorme e che è il vero ago della bilancia del futuro – scelga la “nostra civiltà” dobbiamo convincerlo, in primis, di meritare fiducia. Come? Dimostrando coerenza.
E persino più importante: se vogliamo che le regole del mondo del futuro tengano ancora in considerazione i principi della “dichiarazione dei diritti dell’uomo” e non ci riportino ai campi di sterminio, alle Dresda e alle Hiroshima, dobbiamo dimostrare che quei principi non sono solo parole vuote, rinegoziabili a seconda dell’occasione e dei paesi interessati, ma hanno alle spalle coerenza e valori non contingenti ma universali.
Già molte volte l’Occidente ha peccato d’ipocrisia. E ogni volta ne è uscito indebolito. Se vogliamo porla in un’ottica comprensibile anche ai paladini dello stupido argomento dello “scontro di civiltà”, la differenza è che un tempo la sua schiacciante superiorità, in un certo senso, glielo consentiva. Ora non più.
La guerra “giusta”
Chi segue le vicende internazionali avrà notato che negli ultimi anni si cercano spesso nel passato epigoni, in termini di tensioni tra Stati e/o blocchi, del periodo che stiamo vivendo.
C’è chi, di fronte all’ascesa delle estreme destre europee, rispolvera gli anni Venti/Trenta del secolo scorso, il fantasma dei fascismi e della Seconda Guerra Mondiale. Chi la Guerra Fredda. Quando mi capita di parlare di queste cose, da tempo sostengo che il periodo più simile alla nostra attualità sia in realtà quello dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. E che quindi se proprio vogliamo agitare lo spettro di una guerra… la guerra mondiale “giusta” da citare è la Prima e non la Seconda (che per molti versi non fu che il “secondo tempo” della prima). Il che ovviamente non significa che le cose debbano per forza andare nello stesso modo.
Molte cose si somigliano tra le due epoche. In particolare:
1) le rapide e quasi traumatiche trasformazioni tecnologiche che causarono rapida ridefinizione dei ruoli sociali, grandi spostamenti di ricchezza tra paesi e, all’interno di essi, produssero enorme diseguaglianze tra, da una parte, pochi vincitori dell’innovazione e del libero commercio e, dall’altra, masse sradicate dalle loro occupazioni tradizionali (al tempo agricole, oggi industriali).
2) il predominio prima e la messa in discussione poi di una lunga fase di globalizzazione e di laissez faire in materia di economia politica.
3) la difficoltà da parte degli egemoni dei rispettivi periodi (Gran Bretagna e Stati Uniti) di mantenere l’ordine in precedenza costituito con effetti di svariata natura (militare, finanziaria, monetaria etc) a cui si aggiunse il turbamento di alcune altre importanti polities (l’impero austroungarico e ottomano).
4) l’emergere di nuove potenze (su tutte la Germania guglielmina) che, proprio sfruttando l’innovazione tecnologica, riuscirono rapidamente a raggiungere un livello di sviluppo, soprattutto in ambito militare, tale da poter competere con i “vecchi” egemoni.
In proposito, un recente articolo di Odd Arne Westad, professore di storia globale a Yale, apparso su Foreign Affairs propone un paragone tra l’escalation delle tensioni tra Gran Bretagna (l’egemone appannato) e Germania (l’astro nascente) sul finire dell’Ottocento e l’attuale situazione tra USA e Cina.
L’articolo, dal poco rassicurante titolo “Sleepwalking Toward War” (“Sonnambulare verso la guerra”), ricostruisce il modo in cui – tra sospetti reciproci più o meno fondati e innumerevoli malintesi – Germania e Gran Bretagna si avvilupparono in una “trappola di Tucidide” che finì per fornire la miccia in primis a un’insensata corsa agli armamenti navali (che danneggiò entrambe le economie) e in seguito all’incendio della Prima guerra mondiale.
In particolare, sottolinea il saggio di Westad, si crearono due dinamiche altamente interdipendenti. Da un lato i britannici cominciarono a incolpare la Germania di qualunque segnale di declino imperiale, dall’altro i tedeschi si convinsero che la Gran Bretagna stesse sabotando ogni loro ambizione (il famigerato concetto di Lebensraum, nonché l’idea e i concetti stesso della geopolitica, nascono proprio in questo periodo su input soprattutto di intellettuali tedeschi).
C’era indubbiamente una percentuale di verità in entrambe le narrazioni, ma non quanta i fronti dell’opinione pubblica dei due paesi vennero portati a credere dalla paranoia delle rispettive classi dirigenti. Con un meccanismo di feedback tipico delle profezie che si autoavverano, il clima sempre più incendiato e sfiduciato che si venne a creare tra Germania e Gran Bretagna premiò l’emergere degli elementi politici più nazionalisti e belligeranti, i quali incendiarono ancora di più il clima, si lanciarono in dissennate “guerre commerciali” e così via fino all’esito catastrofico che conosciamo.
Qualcosa di molto simile, sostiene Westad, sta accadendo oggi tra Cina e Stati Uniti che sono rivali “strutturali” e “sistemici” in quasi tutti i campi, poiché in quasi tutti i campi l’ascesa relativa di uno significa la diminizione relativa dell’altro. Tuttavia, così come un secolo fa la Prima guerra mondiale (e il suo bis ancora più catastrofico del ‘39 - ‘45) poteva essere evitata, anche oggi la gravità delle conseguenze tra la rivalità sino-americana dipenderà dalla capacità degli attori in gioco di non cedere agli automatismi ineluttabili tipici dei “giochi” tra potenze. Dipenderà dalle capacità di chi guiderà i due paesi e le rispettive alleanze di “imparare – scrive Westad – le grandi lezioni del passato, e la più importante di tutte è come evitare guerre raccapriccianti, capaci di ridurre in macere generazioni di risultati e conquiste”.
Il re invisibile è il mio nuovo libro.
Racconta la storia del microchip e di come esso sia diventato l’oggetto tecnologico più importante e decisivo del nostro tempo. Al suo interno si parla ovviamente delle rivalità tra Cina e Stati Uniti in merito allo sviluppo dei chip. Si parla di Nvidia e della sua esplosione. Si parla di Taiwan e dei suoi rischi in relazione all’industria dei chip. Si parla di macchine incredibili e fantascientifiche per produrli ma anche dei padri della computazione: da Boole a Shannon fino a von Neumann.
• Qui spiego perché l’ho scritto e perché considero il chip un oggetto affascinante e meritevole di essere raccontato.
• Qui ne parlo a Radio Rai 1.
• Qui c’è il video del mio intervento a Wired Next Festival, in compagnia del prorettore del Politecnico di Milano.
• Qui c’è un estratto del libro.
Grazie, finalmente posso scrivere qualcosa.
La grande differenza con la prima guerra mondiale è che questa è una guerra asimmetrica: gli U.S.A. farebbero volentieri una guerra, ed in questo contesto il comportamento di Israele è perfettamente coerente, la Cina e l'India si guardano bene dall'accettare lo scontro e continuano a fare affari.
La Turchia e l'Iran continuano a fare guerre sotteranee: guarda caso non si parla più degli Houti, probabilmente perchè non riescono a fermarli.
Tutti questi paesi sono ben felici che europei ed americani continuino ad aumentare le spese militari, perchè così facendo si stanno stringendo il cappio intorno al collo da soli.