Buon inizio di settimana con i link di Macro. Storie tecnologiche, economiche e politiche che hanno catturato la mia attenzione in questi giorni.
Cominciamo con un piccolo spazio di auto-promozione. Siccome una sola non mi bastava, con l’amico e collega Roberto Pizzato, ho deciso di lanciare una seconda newsletter, ōmega, che si occuperà di fare divulgazione (e demistificazione) di tutto ciò che ruota intorno al mondo delle nuove tecnologie e in particolare delle intelligenze artificiali.
Se volete iscrivervi a ōmega lo potete fare qui mentre qui trovate la pagina Instagram del progetto e qui l’account Spotify per ascoltare i nostri podcast/intervista mensili.
Per il primo numero di ōmega ho scritto dei nuovi superchip “Blackwell” di Nvidia (ben 208 miliardi di transistor), con cui già ora si addestrano i modelli più avanzati di AI. Presentati in pompa magna da Jensen Huang a fine marzo, dei “Blackwell” si è scritto moltissimo, anche per enfatizzare il fatto che essi promettono di consumare meno energia dei precedenti modelli di GPU (i processori che dominano il segmento dell’AI) della stessa Nvidia. Peccato che la stessa enfasi non venga posta anche sul consumo di elettricità dei sistemi per produrli, questi chip. Come scrivo nell’articolo:
Il problema é che più la frontiera della miniaturizzazione avanza e maggiore è l’impatto energetico dei sistemi di manifattura dei chip. Si calcola che produrre un chip al “nodo” dei 2 nm (nodo è un termine industriale che indica il livello di sviluppo dei processi di manifattura dei chip), consumi più del doppio dell’acqua e tre volte tanta elettricità rispetto ai chip al nodo dei 28 nanometri che erano considerati avanguardia nemmeno dieci anni fa.
Ogni step nella produzione di chip più piccoli richiede un’energia esponenzialmente maggiore rispetto al passato. Prendiamo, per esempio, la stampa litografica che utilizza la tecnologia dell’ultravioletto estremo (Euv) con cui oggi si stampano i circuiti più avanzati. Essa ha sì il vantaggio di ridurre il numero di passaggi necessari alla “stampa” dei chip ma, al contempo, il suo consumo di energia per singolo chip risulta quasi decuplicato. Il risultato è che una fabbrica che produce chip avanzati oggi consuma 100 megawattora in un’ora, ovvero quanto 80mila abitazioni di medie dimensioni.
Il resto lo potete leggere qui.
Vi ricordo che questi temi sono anche (tra) quelli di cui si occuperà il mio prossimo libro, Il piccolo re. Storia, economia e sconfinato potere del microchip, in uscita a maggio per Luiss University Press.
Sempre in tema di chip, intelligenze artificiali e di consumi elettrici, su Domani ho scritto di come “elettricità” e “disponibilità di risorse” siano due variabili estremamente sottovalutate quando si tratta di “economia dell’AI”, nonché un problema energetico e geopolitico per un continente come l’Europa, che come ha ricordato Draghi, è già oggi pieno di dipendenze. Qui sotto un estratto mentre il resto dell’articolo lo trovate a questo link (paywall).
Nel caso dell’AI si sta, per esempio, evidenziando un divario sempre più grande tra le possibilità energetiche che sono in grado di mettere in campo gli Stati Uniti e quelle di cui dispone l’Europa. L’abbondante produzione di gas naturale dei primi (su cui si basa il 40% della produzione di elettricità nel paese), frutto anche della rivoluzione del gas di argille dei 2000, fa sì che oggi gli Usa abbiano una delle tariffe elettriche più basse del mondo.
[…]
Nonostante gli sforzi per diversificare il mix energetico del continente, la produzione elettrica europea dipende infatti tra il 30% e il 45% (a seconda dei paesi) da costose importazioni di gas naturale. È evidente che, con simili statistiche, difficilmente l’Europa potrà sostenere a lungo la fame di elettricità dei data center in cui si addestrano le intelligenze artificiali. A dispetto delle roboanti dichiarazioni dei vertici dell’Unione in merito al desiderio di una maggiore autarchia tecnologica, questa situazione minaccia di porre un chiaro tetto materiale allo sviluppo di AI nel nostro continente.
All’inizio della guerra a Gaza ho scritto quello che pensavo in merito a quello che considero l’enorme errore – morale e strategico insieme – dell’Occidente, Stati Uniti in testa, di fornire supporto politico e materiale a un’operazione simile, proprio mentre si stanno attivamente difendendo i principi del “rules based International order” da chi, come Putin, li vorrebbe rimettere in discussione.
Scrivevo:
Assetti e regole del (nuovo) mondo del presente e del futuro si stanno (ri)scrivendo in questi anni, in cui nuovi attori possono proporsi come credibili alternative al modello occidentale, in termini di sviluppo e di potere. E se vogliamo che il mondo che non ha ancora preso una posizione netta tra le varie alternative – un mondo enorme e che è il vero ago della bilancia del futuro – scelga la “nostra civiltà” (per restare su corde care ai nostri “amici” neo-con numerosi anche in Italia) dobbiamo convincerlo, in primis, di meritare fiducia. Come? Dimostrando coerenza.
E persino più importante: se vogliamo che le regole del mondo del futuro tengano ancora in considerazione i principi della “dichiarazione dei diritti dell’uomo” e non ci riportino ai campi di sterminio, alle Dresda e alle Hiroshima, dobbiamo dimostrare che quei principi non sono solo parole vuote, rinegoziabili a seconda dell’occasione e dei paesi interessati, ma hanno alle spalle coerenza e valori non contingenti ma universali.
Sei mesi dopo, la situazione è, se possibile, peggiorata e non si contano più i gravi incidenti umanitari a Gaza e in Cisgiordania. Una cosa sola non è cambiata, anche a fronte del continuo e concreto rischio di escalation del conflitto: il supporto di Biden, in potenza suicida anche a livello elettorale, a Israele. In questi mesi ho letto diversi articoli in merito alle ragioni, personali, strategiche e geopolitiche, dietro a questo supporto ma il migliore resta un “longform” di Al Jazera, opportunamente diviso in due parti, la prima dedicata alle ragioni intellettuali e culturali che muovono le convinzioni personali di Biden, la seconda alla storia dell’alleanza strategica tra Stati Uniti e Israele, così come è stata plasmata nel corso di più di mezzo secolo. Il pezzo inizia così:
In retrospect, it may have been one of Joe Biden’s most career-defining moments.
Stern-faced and with outstretched arms, the then-Democratic senator pacedfrom left to right as he delivered an impassioned plea to his colleagues in the United States Congress. His message? Stop apologising for your support of Israel.
“There’s no apology to be made. None,” he said, pausing for dramatic effect.
“Were there not an Israel, the United States of America would have to invent an Israel to protect her interest in the region. The United States would have to go out and invent an Israel.”
It was June 1986: Biden, only 43, was decades away from becoming president. But in the years since, his words have taken on near-mythic significance – repeatedly touted by Biden himself as a symbol of his pro-Israel bona fides.
Per chi fosse interessato ad approfondire la questione, lo consiglio caldamente. Questo è il link.