Macro | ⚖️ Il valore della coerenza ⚖️
.Perché l'Occidente non può avallare l'obliterazione di Gaza.
Non ci sono dubbi che quello compiuto il 7 ottobre da Hamas sia un massacro. Non è un atto di guerra e di resistenza ma un atto criminale. Bene ha fatto chi lo ha condannato. Ha sbagliato, ovviamente, chi lo ha celebrato e ha sbagliato anche chi ha cercato di relativizzarlo alla luce dei trascorsi . Perché il problema, nel ciclo di violenza tra Israele e Palestina, è proprio la ricerca, ogni volta, di giustificazioni degli orrori del presente in quelli del passato. Non c’è giustizia nella vendetta.
E se in chi subisce un trauma insopportabile, la vendetta può essere una reazione comprensibile, dopotutto è la più seducente ma transitoria forma di sollievo dal dolore, noi che osserviamo da lontano non dovremmo mai fare l’errore di legittimarla. Nè in un senso né in un altro. Perché la vendetta genera spirali senza fine.
E invece l’avallo della vendetta è proprio ciò che sta accadendo in questi giorni, da una parte e dell’altra. Prima abbiamo visto gli alleati storici (finanziatori?) di Hamas giustificare gli orrori dei 7 ottobre nei modi, e con gli argomenti, che ben conosciamo. Ora vediamo gli alleati storici di Israele fare altrettanto per l’assedio medievale con cui il diritto di perseguire Hamas si sta trasformando in una “punizione collettiva” dell’intera popolazione di Gaza.
Una parte dell’opinione pubblica pro-Israele sta peraltro rispolverando gli stessi argomenti con cui, venti anni fa, l’ “Occidente collettivo” reagì agli attacchi dell’11 settembre. Perorando cioè la tesi che sia in atto uno “scontro di civiltà” e che la “nostra civiltà” non possa vincerlo a meno di accettare di sporcarsi pesantemente le mani. Di rispondere alla barbarie con la barbarie.
La verità è che, nel momento storico attuale, simili argomenti non sono solo moralmente involuti ma strategicamente nocivi.
Nel dopoguerra, gli Stati Uniti e l’Occidente si sono fatti promotori di un ordine mondiale (ne ho scritto diffusamente) fondato sull’idea che le relazioni internazionali debbano essere gestite attraverso “regole” e “istituzioni” per non restare in balia della “legge del più forte” e delle logiche del “raw power”. Era (ed è) un’idea ambiziosa e con una componente morale molto pronunciata. Era (ed è) un’idea contro-intuitiva rispetto alla natura “hobbesiana” della politica internazionale. E infatti il passaggio dalla teoria alla pratica si è rivelato molto difficile e la sua esecuzione, da parte dell’Occidente, si è dimostrata in più occasioni a dir poco imperfetta.
Ciò non significa che si debba del tutto rinunciare all’idea che di fatto è l’unica che ci separa dal ritorno a un mondo semi-medievale. E se non si vuole rinunciare all’idea, se si comprende il rischio che si corre a rinunciarvi, specie in un mondo che va verso la multipolarità, bisogna anche riconoscere che, per essere sostenibile, una simile idea richiede una notevole coerenza da parte di chi la perora. Proprio perché la politica internazionale è un “mercato” estremamente incerto, la coerenza è, al suo interno, una valuta di grande prestigio. Questo poiché è una meta-qualità che si può stimare molto facilmente. Basta confrontare due situazioni per notare doppi standard, ipocrisie etc.
Per questa ragione quando, sull’onda emotiva dell’11 settembre e in piena sbornia neo-con da “scontro di civiltà”, gli Stati Uniti decisero di invadere l’Iraq, sulla base di argomenti poco convincenti e in contravvenzione a regole e istituzioni che essi stessi avevano voluto e promosso, molti scrissero che si trattava di un azzardo, morale e strategico, destinato ad avere conseguenze durature.
Vent’anni dopo, gli Stati Uniti e l’Europa, che troppo poco fece per distanziarsi, pagano ancora il prezzo di quell’errore. Quando Putin ha “presentato” al mondo l’aggressione all’Ucraina, un’azione priva di fondamento nel diritto internazionale, ha avuto buon gioco a ricordare che, nel 2003, gli Stati Uniti hanno invaso un paese per la semplice ragione che avevano la forza per farlo. Specularmente, quando gli Stati Uniti e i loro alleati hanno cercato di allargare il fronte degli oppositori all’invasione russa, una parte non piccola del pianeta ha semplicemente risposto “da che pulpito”. La mancanza di coerenza tra il modo in cui si erano comportati nel 2003 e ciò che predicavano nel 2022 era una “pagliuzza” troppo grande per non essere notata.
Si potrebbe sostenere che Putin avrebbe invaso ugualmente l’Ucraina, anche senza il precedente iracheno e anche se l’Occidente si fosse comportato in modo sempre impeccabile. È probabile ma di certo, senza quel precedente, il resto del mondo avrebbe accolto l’appello occidentale a sostenere l’Ucraina con maggiore convinzione e senza poter costruire alcuna dietrologia. Per non dire del fatto che il prestigio morale delle regole che, nel dopoguerra, l’Occidente ha cercato di promuovere sarebbe oggi molto meno logorato. E nel contesto estremamente fiduciario delle relazioni tra Stati, la reputazione e la morale contano moltissimo. Sono prestatori di ultima istanza di credito politico.
A fondamento della decisione di invadere l’Iraq, e dell’intera “War on terror”, c’era, come detto, una teoria, ben poco realista e razionale, che agitava il fantasma di uno “scontro tra civiltà” in relazione a quello che, a tutti gli effetti, era un conflitto asimmetrico tra la galassia del terrorismo islamico e il più potente apparato militare-finanziario della Storia. Un simile abbaglio si può capire solo se torniamo al concetto di vendetta con cui ho cominciato questa lettera. Sebbene dietro la scelta di attaccare l’Iraq ci fossero opportunismi e lobby di varia natura, essa fu fatta accettare all’opinione pubblica solo grazie alla forte ondata emotiva generata dal trauma dell’11 settembre.
Qualcosa di simile, ma ancora più a caldo, sta avvenendo in Israele. Dove il trauma prodotto sull’opinione pubblica dagli orrendi crimini del 7 ottobre sta venendo “mobilitato”, in termini quasi millenaristici, dal governo Netanyahu per raggiungere una serie di obiettivi più “ambiziosi” riguardo il futuro di Gaza. E se la reazione degli israeliani può essere comprensibile, e persino giustificabile, in virtù del trauma subito, i paesi occidentali, incluso il nostro, dovrebbero pensarci due volte prima di fornire sostegno materiale e morale al tipo di guerra che Israele sta conducendo a Gaza. Dovremmo anzi usare la distanza, anche emotiva, dal trauma per aiutare Israele a non imboccare una strada pericolosa in primis per se stesso.
E non solo per ragioni etiche ma anche per ragioni politiche e pragmatiche. Assetti e regole del (nuovo) mondo del presente e del futuro si stanno (ri)scrivendo in questi anni, in cui nuovi attori possono proporsi come credibili alternative al modello occidentale, in termini di sviluppo e di potere. E se vogliamo che il mondo che non ha ancora preso una posizione netta tra le varie alternative – un mondo enorme e che è il vero ago della bilancia del futuro – scelga la “nostra civiltà” (per restare su corde care ai nostri “amici” neo-con e finti-liberal, numerosi anche in Italia) dobbiamo convincerlo, in primis, di meritare fiducia. Come? Dimostrando coerenza.
E persino più importante: se vogliamo che le regole del mondo del futuro tengano ancora in considerazione i principi della “dichiarazione dei diritti dell’uomo” e non ci riportino ai campi di sterminio, alle Dresda e alle Hiroshima, dobbiamo dimostrare che quei principi non sono solo parole vuote, rinegoziabili a seconda dell’occasione e dei paesi interessati, ma hanno alle spalle coerenza e valori non contingenti ma universali.
Già molte volte l’Occidente ha peccato d’ipocrisia. E ogni volta ne è uscito indebolito. Se vogliamo porla in un’ottica comprensibile anche ai paladini dello stupido argomento dello “scontro di civiltà”, la differenza è che un tempo la sua schiacciante superiorità, in un certo senso, glielo consentiva. Ora non più.
La finanza della “War on terror” e cosa ci dice sulle possibilità economiche degli Stati.
L’ “ombra lunga” della guerra in Iraq.
The hell of good intentions è il libro definitivo – non a caso scritto da un aderente alla scuola realista – sugli errori della politica internazionale americana, dalla fine della guerra fredda a oggi, e sulle loro conseguenze per il declino dell’impero USA.
La stagione 5 di Slow Burn racconta come un misto di bugie, lobbismo, propaganda e paranoia convinse l’opinione pubblica americana ad avallare la guerra in Iraq. (Slow Burn è in generale un podcast bellissimo, vi consiglio anche le altre stagioni).