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Porti e reti. I grandi sistemi e i loro problemi.
Bentrovati su Macro. Come accade spesso, qualche aggiornamento di carattere personale prima di cominciare.
Lo scorso week-end, nel corso del Wired Next Fest di Rovereto, ho avuto il piacere di confrontarmi con una delle maggiori autorità italiane nel campo dei semiconduttori, Alberto Sangiovanni-Vincentelli, professore di computer science a Berkeley, fondatore di importanti aziende del settore e oggi Presidente della fondazione Chips-it, una fondazione che si occupa dello sviluppo dell’industria italiana dei semiconduttori. È stato un incontro interessante e ricco di contenuti e mi ha fatto piacere constatare come il professore fosse d’accordo con molte mie analisi.
Se siete interessati qui c’è il video dell’incontro.
Veniamo ora al tema del post di oggi, ovvero…
Sono giorni particolarmente caldi per chi, come me, si interessa di infrastrutture e di sistemi materiali (la logistica, i chip etc) nella convinzione che essi siano il presupposto indispensabile per capire un mondo tecnologico e connesso come quello in cui viviamo.
Da ieri sono in sciopero i portuali americani della costa est che aderiscono alla storica sigla ILA (International Longshoremen’s Association). L’agitazione interessa 36 porti americani, le cui operazioni sono al momento più o meno interamente bloccate, ed è la più estesa dal 1977. I lavoratori chiedono un nuovo contratto a condizioni salariali migliori e il divieto all’uso di macchinari automatizzati nelle operazioni di carico-scarico delle merci.
Si calcola che ogni settimana di sciopero potrebbe costare 2 miliardi di dollari all’economia americana. Se lo sciopero dovesse protrarsi a lungo, diciamo settimane, potrebbe addirittura avere impatti sull’inflazione globale.
Questo poiché, come ho scritto più volte anche qui su Macro (e su Wired già a inizio pandemia, nel marzo 2020), non esistono sistemi logistici isolati. Di fatto ogni crisi sufficientemente seria che riguardi un sistema logistico in una qualunque parte del mondo è una crisi che finirà necessariamente per riguardare IL sistema logistico globale.
E così, nel caso dello sciopero americano, è già stato fatto notare come ritardi sui moli USA finiranno sicuramente per riverberare anche sui porti europei e asiatici, con effetti domino che rischiano di estendersi, nel medio-lungo periodo, al commercio, all’industria e all’economia in generale.
Come scrive un’analista di Xeneta, una delle società di consulenza leader nel settore del trasporto marittimo:
“Le conseguenze saranno gravi, non solo a causa della congestione nei porti statunitensi, ma soprattutto poiché il ritorno di queste navi in Estremo Oriente per il viaggio successivo sarà ritardato. Uno sciopero, anche della durata di una sola settimana, avrebbe un impatto sugli orari delle navi che lasciano l’Estremo Oriente per gli Stati Uniti fino a fine dicembre e per tutto gennaio”
È ciò che accade quando si costruisce un intero sistema di flussi intorno a un singolo oggetto-medium (il container). Come scrivevo nel mio libro La signora delle merci:
“A rendere il container davvero rivoluzionario […] è la sua capacità di spostarsi rapidamente tra mezzi diversi, concatenando sistemi di trasporto un tempo separati in unico flusso di trasporto: il trasporto di container. Che diviene così una sorta di “catena di montaggio” del trasporto globale”
Questa caratteristica di “passe-partout” è la stessa che, in caso di problemi sistemici, rende il container particolarmente adatto alla loro trasmissione al di fuori dei singoli contesti in cui essi si generano. Come sanno gli studiosi di qualunque medium – dal linguaggio ai sistemi d’informazione – ogni medium è potenzialmente anche un veicolo di virus.
Data questa constatazione, la sorpresa non è lo sciopero di oggi ma il fatto che, negli ultimi cinquanta anni, i portuali USA non avessero mai militarizzato la loro nevralgicità nel sistema logistico, e quindi economico, contemporaneo. Come peraltro da tempo suggerivano di fare studiosi di ispirazione marxista o post-marxista, tra cui spicca la geografa Deborah Cowen (autrice del fondamentale The Deadly Life of Logistics).
Sul fronte opposto dello spettro ideologico rispetto alla Cowen, segnalo un recente e molto interessante contributo di Noahpinion, la newsletter del giornalista e blogger economico (di orientamento neoliberal) Noah Smith.
L’articolo, dall’eloquente titolo “America's supply chains are a disaster waiting to happen”, mette in fila le numerose fragilità del sistema logistico-industriale USA. Al suo interno l’analisi degli eccessi di dipendenza della logistica internazionale dai flussi di singoli dispositivi (come appunto il container), si fonde alle nefaste conseguenze che tali eccessi hanno, o potrebbero avere, su alcune industrie chiave del contemporaneo. Tra cui…(rullo di tamburi)… quella dei semiconduttori. I quali, a loro volta, giocano un ruolo chiave nella digitalizzazione/automazione dei porti che ha spinto i portuali americani allo sciopero. Tutto, come di dice in questi casi, si tiene.
Di particolare interesse mi sembra un passaggio dedicato alla critica dell’uso di una parola come supply chain (o l’equivalente italiano filiera) per indicare il funzionamento dei sistemi industriali globalizzati, laddove invece sarebbe da preferire una concezione “rizomatica” degli stessi.
Ecco il passaggio in questione:
La parola “chain” (catena) suggerisce una progressione semplice e lineare dalle materie prime ai prodotti finiti. Ma questa immagine è imprecisa. È meglio considerare il sistema di relazioni commerciali che supporta la produzione come una rete. Pensate alle aziende come a nodi o punti nella rete. Sono collegati attraverso le loro relazioni di approvvigionamento. Queste relazioni sono dirette: gli input vanno dal fornitore all'acquirente, che rappresentiamo con una freccia in quella direzione. Alcune aziende richiedono input altamente specializzati che possono essere forniti solo da partner specifici, mentre altre aziende possono ottenere input più generici da una varietà di fornitori. La rete di fornitura di una determinata impresa può avere molti livelli, ovvero i fornitori diretti di un’impresa possono fare affidamento su altri fornitori, creando più livelli di imprese interconnesse, che si estendono molto a monte15 nel processo di produzione
Per fare un esempio nel mondo reale, consideriamo la rete di fornitura di Toyota, che l’azienda ha tracciato dopo il dirompente terremoto del Grande Terremoto del Giappone orientale del 2011. Esaminando fino a dieci livelli di fornitori, Toyota ha scoperto che la loro produzione si basava sull'incredibile cifra di 400.000 articoli acquistati direttamente o indirettamente. Ciò evidenzia la vasta ramificazione e complessità che emerge quando guardiamo oltre la fuorviante struttura lineare implicita nel termine “catena di fornitura”.
[…]
I collegamenti vengono interrotti quando le aziende non riescono a commerciare con successo o a collaborare con i propri fornitori a causa di problemi quali problemi di spedizione, barriere commerciali o interruzioni dei contratti. Le interruzioni possono verificarsi anche all’interno del aziende stesse, i nodi della rete. Ad esempio, un’azienda potrebbe non riuscire temporaneamente a produrre a causa di disastri naturali, scioperi o problemi finanziari. Possiamo immaginare tali interruzioni come la disattivazione o la chiusura di alcuni collegamenti o nodi, proprio come potrebbe essere chiusa una strada o un incrocio in una rete stradale. L'impatto poi si propaga verso l'esterno.
L’altra interessante notizia sul fronte delle infrastrutture di questi ultimi giorni riguarda lo scontro tra Meta (Facebook, Instagram, Whatsapp) e Deutsche Telekom, l’operatore tedesco delle telecomunicazioni che è anche leader europeo nel settore.
Ecco come la riassume Bloomberg:
La lunga battaglia tra Meta Platforms Inc. e Deutsche Telekom AG sulla trasmissione dei dati è esplosa la scorsa settimana, quando il colosso dei social media ha dichiarato che avrebbe interrotto il suo rapporto con il più grande operatore di telecomunicazioni europeo. Deutsche Telekom ha accusato Meta di “abusare del suo schiacciante potere contrattuale” e Meta ha accusato DT di creare un “pericoloso precedente globale”.
La disputa è da nerd (stiamo parlando di accordi di peering e regole di neutralità della rete), ma pone le basi per la ripresa di un conflitto molto più ampio a Bruxelles su quanto le grandi aziende tecnologiche dovrebbero farsi carico dei costi di trasmissione di così tanti dati.
Quella che ho messo in grassetto è una questione enorme, nonché il grande equivoco al cuore del cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”. Le quali piattaforme fanno un uso iper-intensivo, e logorante, delle infrastrutture (talora anche finanziate con soldi pubblici, come appunto le reti o le strade) su cui si fondano i loro servizi e i loro modelli di business ma, in virtù all’enorme potere contrattuale che detengono, queste stesse piattaforme cercano in ogni modo di sottrarsi alle richieste di contribuire (direttamente, o indirettamente, per esempio con le tasse) al mantenimento di tali infrastrutture in proporzione adeguata all’uso enorme – ed esorbitante quello di quasi ogni altro player economico – che ne fanno.
La quantità di costi sommersi, ed evasi, su cui poggiano le grandi cattedrali del big tech è notevole e cresce sempre di più man mano che aumenta la loro pervasività.
Un esempio che faccio spesso è quello del… mio portinaio. Il quale, come milioni di altri portinai in giro per il mondo, ormai passa più tempo a tenere in ordine pacchetti di grande aziende dell’e-commerce di quanto ne passi a pulire le scale. Il mio portinaio – e se vivete in una grande città immagino anche il vostro – è ormai di fatto un’estensione dell’infrastruttura delle consegne dei suddetti e-commerce.
Sono infatti abbastanza sicuro che se non ci fosse il suo servizio di giacenza gli inquilini del mio palazzo acquisterebbero molte meno cose online (dovrebbero essere sicuri di trovarsi in casa o dovrebbero andare a recuperare i loro acquisti in posta o altri luoghi simili). Il mio portinaio, come milioni di altri nel mondo, è di fatto, a tutti gli effetti, ormai parte del sistema logistico, e del modello di business, dei grandi e-commerce. Tuttavia per questo ruolo non percepisce alcun compenso da queste piattaforme. Anzi sono io – siamo noi inquilini – a pagarlo per i suoi servizi, incluso, oggi, un’attività che contribuisce ai ricavi di aziende gigantesche. Si potrebbe sostenere che il ruolo e il compenso del mio portinaio sia regolato, e afferisca, al mercato dei portinai e non a quello delle compravendite digitali.
Fino a qualche anno fa, quando gestire pacchetti sembrava ammontare al 10% delle attività del mio portinaio, ne ero convinto anche io. Oggi che mi pare che il tempo che passa a gestire pacchetti sia più vicino al 60% delle sue giornate, non ne sono così sicuro. È uno di quei casi in cui la quantità di qualcosa ne cambia anche la qualità e la natura. Prendersi cura di pacchi di Amazon e Zalando and co. non è più un’attività accessoria ma una delle sue principali occupazioni quotidiane. Ma sono sicuro che se una corte dovesse determinare che l’ “uso” dei portinai non è più accessorio ma strumentale ai business delle suddette aziende, esse troveranno senz’altro da ridire o dei modi per eludere qualunque responsabilità finanziaria in merito.
Che poi è lo stesso problema – l’uso “esorbitante” di qualcosa – al centro della vertenza tra Meta e Deutsche Telekom e di molte altre simili contese riguardanti la relazione tra infrastrutture e big tech.
Sono contese che chiamano in causa l’assenza di nuove e più aggiornate teorizzazioni del concetto di “valore” in relazione alla “platform economy”. Nonché il motivo per cui da tempo sostengo, e non sono il solo, che in merito all’economia digitale, avremmo bisogno di pensatori in grado di elaborare “teorie del valore” davvero radicali e fondative quanto quelle dei vari Smith e Ricardo ai tempi della transizione tra società agricola e società industriale.
(cover photo: Zhu Hongzhi su Unsplash)
Condivido tutto, e grazie per la notizia dello sciopero, sui giornali online non ne avevo letto nulla!