Bentornati su Macro! Dicembre è stato finora un mese davvero pieno e purtroppo sono riuscito a trovare poco tempo per la newsletter. Non ultimo perché sto scrivendo un nuovo libro che dovrebbe uscire in primavera. Seguiranno aggiornamenti.
Nonostante i molti impegni, da autore di un saggio sulla logistica internazionale, non potevo non commentare quello che sta accadendo nel Mar Rosso. Dove, per chi non lo sapesse, il gruppo armato Houthi – un’organizzazione sciita con base nel devastato Yemen e una storica alleanza con l’Iran — sta conducendo da mesi attacchi alle navi da cargo che passano per il Mar Rosso, da o verso il canale di Suez. Ora la situazione si è aggravata, gli attacchi intensificati e la cosa sta spingendo alcuni importanti shipper, inclusi Maerks e MSC, a sospendere il transito da uno dei corridoi logistici più importanti del mondo, per cui passa, ogni anno, il 12% del carico mondiale, per un valore superiore al triliardo di dollari. Si parla di un possibile intervento delle marine NATO (inclusa, con un ruolo non trascurabile, quella italiana) per difendere il passaggio, una soluzione particolarmente delicata considerato anche il resto della situazione in medio-oriente. Mi sembra dunque utile fornire alcuni “punti cardine” in cui inserire il tema dal punto di vista logistico, geopolitico e, anche, storico, una dimensione che non guasta mai.
I corridoi sono sempre (anche) strettoie
Nel mondo si contano sulle dita di una mano i corridoi di transito d’importanza strategica, e di peso economico, pari al canale di Suez. Ciò che, in tempi di quiete e abbondanza, si tende a dimenticare sul loro conto è che ogni punto di transito e passaggio è anche, in potenza, un punto di fragilità e vulnerabilità critica. Una strettoia o strozzatura, più vicino all’inglese chokepoint, che, date determinate condizioni, si può chiudere su stessa con enormi, e gravi, ricadute per chi l’ha data troppo per scontata. Lo abbiamo imparato un paio di anni fa, quando la Ever Given si incagliò in mezzo a Suez e, in appena pochi giorni d’intoppo, vennero bruciati miliardi di dollari tra merci non consegnate, ricadute sui mercati e assicurazioni.
Se cambiano i canali, cambia il mondo
È ovviamente ancora troppo presto per capire se la situazione nel Mar Rosso è passeggera o è l’inizio di una nuova (a)normalità. Di certo questa nuova “crisi di Suez” si inserisce in un contesto già problematico per la logistica. In primis perché ’intera industria deve ancora riassorbire l’onda lunga delle anomalie pandemiche (fluttuazione dei prezzi etc). In secondo ordine perché il settore è, per natura, molto suscettibile al disordine geopolitico e alle tensioni in generale. In ultimo perché, al momento, alcuni dei più importanti “passaggi/strettoie” del pianeta sono vittime di crisi strutturali. Di Suez stiamo parlando ora ma anche il canale di Panama ha i suoi problemi, dovuti ai dissesti idrici del bacino che alimenta il sistema di chiuse del canale (ne ho scritto anche su Macro). Suez e Panama: sembrano crisi diverse – una politica e militare l’altra naturale e climatica – ma la realtà è che il sistema logistico globale è un sistema di vasi comunicanti e il sovraccarico di uno di questi vasi inevitabilmente finisce per trasmettere stress a tutti gli altri. Come scrivo nel mio libro, i sistemi logistici sono sistemi intrinsecamente “socio-ecologici”, in cui l’interazione tra l’elemento umano, sociale e (geo)politico e quello naturale, ambientale, climatico si presenta come un “feedback loop”, in cui uno stress alimenta l’altro, una frizione ne crea altre e così via. Il tutto ha come conseguenza disfunzioni a carico dei grandi corridoi da cui dipende l’andamento delle nostre economie. Un fenomeno come l’inflazione è, per esempio, altamente sensibile agli aumenti dei costi del trasporto, e dunque ogni volta che la condizione dei canali cambia, cambia anche il mondo in cui viviamo.
Il problema della tecnologia bellica
Forse l’aspetto più sottovalutato, ma significativo, di quanto sta accadendo è legato al fatto che oggi la tecnologia militare è avanzata a un punto tale che persino un’organizzazione come gli Huthi è in grado (pare grazie all’aiuto dell’Iran) di mettere le mani su armamenti come missili a lunga gittata e droni capaci di colpire, da riva, obbiettivi in movimento a decine o persino a centinaia di chilometri. Questo poiché il livello dell’industria militare è tale che persino equipaggiamenti poveri e anacronistici sono in grado di fare enormi danni. Quello dell’aumento di produzione di rischi della modernità e del costo di gestirli è un tema colossale e intrinseco allo sviluppo tecnologico, che diventa particolarmente significativo e inquietante quando lo si pone in relazione all’industria militare e alla proliferazione di “soggetti” intermedi tra Stati e terrorismo
La tradizione della “Porta del dolore”
L’area del mondo di cui parliamo è da sempre una delle più turbolente e difficili da “governare”, proprio perché è membrana tra Oriente ed Occidente, Europa ed Asia, Mediterraneo e Oceano Indiano. Lo era persino prima del canale di Suez, quando i commerci si svolgevano per metà via e per metà via terra, figuriamoci dopo. Il problema degli Huthi non è di ieri e, prima di esso, come è noto, esisteva (e tuttora esiste) un enorme tema di pirateria nella regione. Data la loro importanza strategica sono secoli che le acque intorno a Bab El-Mandeb (in arabo “Porta del dolore”, per i frequenti naufragi nell’antichità) ospitano conflitti di vario grado. Battaglie navali che nel tempo hanno coinvolto ottomani, veneziani, africani, persiani, indiani, arabi, portoghesi, inglesi, americani. L’anormalità per quell’area, in un certo senso, è la calma non la tempesta. Tra i tanti corsi e ricorsi, forse quello che più riverbera, in senso ampio e generale, sulla situazione odierna è il cosiddetto “general maritime treaty” che gli inglesi imposero, nel 1820, a tutti i sovrani arabi che si affacciavano al Mar Rosso su un versante, e al Golfo Persico sull’altro, imponendo loro, con la forza della propria marina, di non attaccare, né in forma ufficiale né facendo ricorso a pirati, le navi commerciali dell’East India Company che facevano la spola dall’India attraverso quelle fondamentali valvole logistiche. Considerato da alcuni storici il momento in cui si può ufficialmente fare iniziare il periodo della cosiddetta Pax Britannica sui mari del mondo, esso è anche, di certo, il momento in cui si intensifica e si complica l’invischiamento dell’Inghilterra, e in generale dell’Occidente, nel cosmo medio-orientale, con tutte le conseguenze che ciò avrà sul successivo corso della Storia. Ed è sicuramente notevole ricordare come i primi a tentare di ribellarsi a quell’imposizione furono proprio gli abitanti di Aden, attuale Yemen. Quando gli inglese, nel 1839, si presentarono con l’intento di trasformare Aden in una stazione per il rifornimento di carbone, il sultano del Lahej rifiutò e compì diversi atti di sabotaggio delle navi degli inglesi, i quali risposero con una repressione (la Aden expedition) che culminò nel saccheggio della città e nella parziale distruzione della fortezza di Sira, le cui mura resistevano dal Mille. Anche questi sono i fantasmi che si agitano nell’aria di quella regione.