Nelle ultime due settimane ha fatto molto parlare il cosiddetto “rapporto Draghi” sulla competitività dell’Unione Europea. Si è discusso della enorme cifra – 800 miliardi annui, pari quasi al 5% del PIL dell’area – che il report stima come investimento necessario al rilancio della “competitività” europea e al recupero di un minimo grado di autonomia strategica e tecnologica dalle tante dipendenze che, negli ultimi decenni, l’Europa ha accumulato un po’ in tutti i settori critici (a questo link un intervento di Macro in merito alla situazione europea). Sono state fatte molte ironie in merito a questa cifra e alla sua reperibilità, ma io ritengo invece sia sempre importante “dare un nome (o un numero) alle cose”, in questo caso alla dimensione del problema europeo.
Ovviamente il report parla anche di chip, l’argomento del mio ultimo libro, e proprio la posizione dell’Europa nella cosiddetta “guerra dei chip” sarà il tema di un incontro organizzato dall’Institute for European Policymaking dell’univesità Bocconi, che si terrà questa sera presso la libreria Egea di Milano. A parlarne con me ci saranno Alessia Amighini (Bruegel e ISPI), Sanne Van Der Lugt (ricercatrice e advisor) e Roberto Baldoni (ex direttore generale dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale). Modera Stefano Feltri.
Dello stesso argomento parlerò anche sabato a Rovereto, nel corso di un evento organizzato da Wired. Questa volta lo farò in compagnia di Alberto Sangiovanni-Vincentelli, professore di computer science all’Università di Berkeley e Presidente della Fondazione Chips-IT, una fondazione nata con l’obiettivo di sostenere lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori mostrata.
Ma torniamo al rapporto Draghi, dove i chip vengono nominati in tre punti:
La concorrenza per la potenza di calcolo e la mancanza di investimenti nella connettività potrebbero presto tradursi in colli di bottiglia digitali. L’addestramento di nuovi modelli di base e la costruzione di applicazioni di IA integrate verticalmente richiedono un aumento massiccio della potenza di calcolo, che sta scatenando una “corsa ai chip per l’IA” a livello globale con costi enormi. Si tratta di una corsa in cui le aziende europee più piccole e meno finanziate potrebbero faticare a competere.
…e…
L’UE dipende dall’estero per oltre l’80% dei prodotti, servizi, infrastrutture e proprietà intellettuale digitali. Tali dipendenze sono particolarmente accentuate, tuttavia, per i semiconduttori a causa della struttura del settore, dominato da un piccolo numero di grandi operatori. Gli Stati Uniti si sono specializzati nella progettazione di chip, la Corea, Taiwan e la Cina nella produzione degli stessi, il Giappone e alcuni Stati membri dell’UE nei materiali e nelle attrezzature chiave, come ottica, chimica e macchinari. L’Europa ha una scarsa capacità interna in molte parti della catena di fornitura. Ad esempio, attualmente l’UE non ha fonderie che producono nodi di processo inferiori a 22 nm e dipende dall’Asia per il 75%-90% della capacità di produzione di wafer (come gli Stati Uniti).
…infine…
l’Europa dovrebbe massimizzare gli sforzi congiunti per rafforzare l’innovazione nei semiconduttori e la sua presenza nei segmenti più avanzati dei chip. La relazione raccomanda di lanciare una strategia comune basata su quattro elementi. In primo luogo, finanziare l’innovazione e creare laboratori di prova in prossimità dei centri di eccellenza esistenti. In secondo luogo, fornire sovvenzioni o incentivi fiscali per R&S alle aziende “fabless” attive nella progettazione di chip e alle fonderie in segmenti strategici selezionati. In terzo luogo, sostenere il potenziale innovativo dei chip tradizionali. Infine, coordinare gli sforzi dell’UE nel back-end del packaging avanzato 3D, nei materiali avanzati e nei processi di finitura. Dopo la proposta di un regolamento europeo sui chip nell’UE sono stati annunciati investimenti complessivi nell’impiego industriale di circa 100 miliardi di euro, per lo più sostenuti dagli Stati membri nell’ambito del controllo degli aiuti di Stato. Tuttavia, c’è il rischio che un approccio frammentato porti a un debole coordinamento delle priorità e dei requisiti della domanda, a una mancanza di economia di scala per i produttori interni e, di conseguenza, a una minore capacità di investimento nei segmenti più innovativi dei semiconduttori.
Mi fa molto “piacere” (anche se forse “piacere” non è la parola giusta) che il rapporto Draghi sottolinei un problema di cui parlo spesso nei miei interventi (vedasi più giù) e di cui ho scritto anche nel capitolo conclusivo del mio libro, ovvero il rischio di un “approccio frammentato” e non comunitario alla questione, con i singoli Stati che vanno ognuno un po’ per conto proprio, disperdendo risorse ed efficienze produttive. Ecco un estratto da Il re invisbile in cui tratto alcune delle questioni sollevate anche dal rapporto Draghi:
Le scelte industriali dell’Europa negli ultimi trent’anni sono tra le ragioni che spiegano la mancanza di una Intel, di una Samsung o di una TSMC europea. Un’assenza che non si traduce soltanto in profitti o in posti di lavoro in meno ma, soprattutto, in una riduzione di autonomia, di capacità produttiva, di competenze di manifattura, di possibilità di innovazione in merito a una tecnologia che, come ripetuto spesso, è a fondamento di tutte le tecnologie.
Il risveglio delle coscienze europee in merito ai chip è coinciso, come per gran parte del mondo, con la pandemia. Le aziende automobilistiche europee hanno pagato a caro prezzo la carestia di semiconduttori del biennio ’20 - ’22. Il settore dell’auto rappresenta il 7% del PIL della UE (la percentuale più alta, in proporzione, rispetto ogni altra macro-regione economica del pianeta) e, tra 2021 e 2022, si calcola che, a causa della scarsità di chip, l’industria abbia perso circa 100 miliardi di euro. L’automotive utilizza solo una piccolissima percentuale di semiconduttori avanzati e consuma soprattutto “chip legacy” ed eppure l’Europa si è scoperta dipendente dalle manifatture straniere persino per questi ultimi. In un mondo, e in un’ epoca, in cui le risorse strategiche e le filiere sono sempre più prese di mira e “militarizzate” è una situazione che pone gli europei in una condizione di grande vulnerabilità.
Nel settembre 2021, nel suo “discorso sullo stato dell’Unione”, Ursula Von Der Leyen metteva in risalto il tema con queste parole: “permettetemi di fare focus sui semiconduttori, quei piccoli chip che fanno funzionare tutto: dagli smartphone agli scooter elettrici ai treni fino a intere smart factory. Non c’è digitale senza chip […] ma mentre la domanda globale esplodeva, la quota dell’Europa sull’intera catena del valore, dal design alla manifattura si è ridotta […] Questa non è solo una questione di competitività. È anche una questione di sovranità tecnologica”. Nella stessa occasione la Von Der Leyen annunciò l’intenzione di presentare un European Chips Act (d’ora in poi ECA) con lo scopo di creare “un ecosistema europeo del chip allo stato dell’arte anche per quanto riguarda la produzione”.
[…] l’ECA puntava e punta alla ricostruzione della capacità di manifattura di chip del Vecchio Continente, soprattutto per quanto riguarda i modelli di cui le industrie europee, su tutte quella dell’auto, fanno uso più copioso. L’obiettivo dichiarato è di raddoppiare, entro il prossimo decennio, la percentuale di chip mondiali prodotti sul suolo europeo (anche se non necessariamente da aziende europee), in modo da dotare l’Europa di un grado minimo di resilienza a eventuali altri shock acuti come è stata la pandemia.
Benché sia stato salutato come un’assoluta novità, l’ECA ha in realtà diversi predecessori. Nel 2013, la UE presentò un New European Industrial Strategy for Electronics, con lo scopo dichiarato di raccogliere 100 miliardi di capitali privati da investire nella produzione autoctona di chip. Per presentarla il vice commissario europeo Neelie Kroes usò parole simili a quelle delle Von Der Leyen: “altri stanno investendo aggressivamente nei chip informatici e l’Europa non può permettersi di restare indietro. Dobbiamo rinforzare e connettere I nostri punti di forza e svilupparne di nuovi”. Come si evince dallo stato del chip europeo descritto poc’anzi, il progetto non ebbe successo. Ancora precedente, addirittura risalente ai primi anni Ottanta, è l’ESPRIT (European Strategic Programme on Research in Information Technology), un progetto, a più fasi, per incentivare forme di cooperazione tra le diverse industrie tecnologiche europee, in risposta a un’equivalente iniziativa e all’epoca crescente percezione dell’ascesa tecnologica giapponese. Durante i suoi quasi vent’anni di attività (1983 - 1999), l’ESPRIT ottenne buoni risultati in diversi campi, ma l’idea di costruire un campione continentale nell’ambito dei semiconduttori (sulla falsariga di quanto fatto nell’aerospaziale con Airbus) con ogni evidenza non si concretizzò mai.
All’ECA andrà diversamente? Gli scettici sono numerosi. C’è chi fa notare che l’Europa non produce abbastanza manodopera specializzata per operare grandi fabbriche di semiconduttori. Altri sottolineano come gli annunciati investimenti siano una goccia nel mare rispetto alle cifre necessarie per raddoppiare davvero la capacità di manifattura europea di chip nei prossimi sei anni (uno studio di Deloitte pone a 500 miliardi la stima del capitale richiesto per raggiungere un obiettivo di tale portata). C’è infine il problema, tipico dei meccanismi europei, di come dividere le quote degli investimenti. Auspicare “sinergie e collaborazioni tra paesi” non costa nulla ma, alla prova dei fatti, più che una visione e una strategia comune a tutta la UE finora sembrano prevalere gli interessi dei singoli governi a portare a casa questo o quell’obiettivo, ad ascriversi questo o quel merito politico. La prevista apertura delle nuove fab europee di colossi come TSMC e Intel ha così scatenato un’aggressiva competizione, tutta interna al Vecchio Continente e combattuta a colpi di sussidi e sgravi fiscali. Una competizione che i grandi nomi internazionali usano, comprensibilmente, per spuntare le maggiori concessioni e i migliori finanziamenti possibili ma che rivela l’assenza di una condivisa visione strategica da parte del Vecchio Continente.
Come sottolineato nel novembre 2022 da uno studio del think-tank Bruegel, la politica europea sui chip rischia di infrangersi contro gli stessi limiti e gli stessi problemi di quella tentata dai cinesi negli anni Dieci: ovvero finire per inondare il mercato di liquidità e sussidi al livello più basso della catena del valore – alla ricerca di visibilità politica più che di risultati effetti – senza una precisa concezione di ciò che si vuole ottenere, di quali siano i vantaggi competitivi su cui può contare l’Europa nell’ambito dei chip e, soprattutto, senza una valutazione preliminare di quali siano i suoi punti deboli e dunque gli obiettivi realisticamente irraggiungibili.
A causa della mancanza delle grandi scale di cui dispongono i cosiddetti incumbent del settore, raddoppiare la capacità produttiva della manifattura europea di chip sarebbe, come detto, un’impresa estremamente costosa, caratterizzata da tempi e rendimenti incerti. Se l’ambizione di recuperare una certa resilienza sui chip dell’auto, per non restare all’asciutto in caso di emergenze acute, è senza dubbio una scelta virtuosa, tentare di risalire in grande stile sul treno della manifattura di semiconduttori, siano essi legacy o avanzati, potrebbe rivelarsi una strategia meno lungimirante di quanto invece lo sarebbe arricchire ulteriormente le capacità di ricerca e innovazione in cui, già ora, l’Europa eccelle, Italia inclusa.
Grazie ad esse il Vecchio Continente potrebbe puntare a una propria originale “offset strategy”. Anziché partecipare e una gara in cui parte per ultima, l’Europa potrebbe cominciare a correrne una nuova. Qualcosa di simile, in fondo, è già accaduto. Nel 1998 la UE finanziò, per metà del budget, un consorzio di ricerca e sviluppo industriale chiamato EUCLIDES. Ne facevano parte aziende tedesche, inglesi e francesi. Il coordinatore era un’azienda olandese al tempo poco nota persino agli addetti ai lavori. Si chiamava ASML e grazie a EUCLIDES pose i primi fondamentali mattoncini per “la macchina che ha salvato la legge di Moore”.
Nelle ultime settimane sono stato molto in giro a promuovere il mio libro, parlare di chip, geo-economia, politiche internazionali (ed europee) in merito alla tecnologia e così via.
Per esempio l’ho fatto per Globo, podcast di questioni internazionali de Il Post, ideato e condotto dal bravissimo Eugenio Cau.
Domenica scorsa, ero invece al Festival del pensare contemporaneo dove, grazie anche alla moderazione di Silvia Boccardi, ho discusso di chip e altre tecnologie con Massimo Banzi, fondatore di Arduino. Il panel è stato registrato ed è attualmente disponibile su YouTube.
Mi sembra infine doveroso un commento ai fatti più recenti del Medio-Oriente. Purtroppo la (triste) realtà è che non c’è molto da aggiungere a quello che avevo scritto ormai quasi un anno fa proprio qui su Macro:
In Israele il trauma prodotto dagli orrendi crimini del 7 ottobre sta venendo “mobilitato”, in termini quasi millenaristici, dal governo Netanyahu per raggiungere una serie di obiettivi più “ambiziosi” riguardo il futuro di Gaza. E se la reazione degli israeliani può essere comprensibile in virtù del trauma subito, i paesi occidentali, incluso il nostro, dovrebbero pensarci due volte prima di fornire sostegno materiale e morale al tipo di guerra che Israele sta conducendo a Gaza. Dovremmo anzi usare la distanza dal trauma per aiutare Israele a non imboccare una strada pericolosa in primis per se stesso.
E non solo per ragioni etiche ma anche per ragioni politiche e pragmatiche. Assetti e regole del (nuovo) mondo del presente e del futuro si stanno (ri)scrivendo in questi anni, in cui nuovi attori possono proporsi come credibili alternative al modello occidentale, in termini di sviluppo e di potere. E se vogliamo che il mondo che non ha ancora preso una posizione netta tra le varie alternative – un mondo enorme e che è il vero ago della bilancia del futuro – scelga la “nostra civiltà” (per restare su corde care ai nostri “amici” neo-con e finti-liberal, numerosi anche in Italia) dobbiamo convincerlo, in primis, di meritare fiducia. Come? Dimostrando coerenza.
E persino più importante: se vogliamo che le regole del mondo del futuro tengano ancora in considerazione i principi della “dichiarazione dei diritti dell’uomo” e non ci riportino ai campi di sterminio, alle Dresda e alle Hiroshima, dobbiamo dimostrare che quei principi non sono solo parole vuote, rinegoziabili a seconda dell’occasione e dei paesi interessati, ma hanno alle spalle coerenza e valori non contingenti ma universali.
Già molte volte l’Occidente ha peccato d’ipocrisia. E ogni volta ne è uscito indebolito. Se vogliamo porla in un’ottica comprensibile anche ai paladini dello stupido argomento dello “scontro di civiltà”, la differenza è che un tempo la sua schiacciante superiorità, in un certo senso, glielo consentiva. Ora non più.