Macro | Micro #2 🇪🇺 Il tracollo dei titoli europei, working class vere o presunte e le Tesla in Cina 🚘
Tra le cose che mi hanno colpito questa settimana
Buona domenica.
Benvenuti a Micro, la rubrica del fine settimana di Macro che segnala alcune delle cose più interessanti lette, viste o ascoltate questa settimana (quantomeno per le lenti di questa newsletter) .
Prima di cominciare vi ricordo che giovedì si è conclusa la mini-antologia di Macro sugli “Stati della computazione” contemporanea.
Nell’arco di quattro puntate spalmate su un mese, abbiamo parlato di intelligenza artificiale, Nvidia, OpenAI, hyperscaler, consumi energetici, megachip, fusione nucleare, frammentazione geopolitica, chiplet, dipendenze stratetgiche, cloud, computazione quantistica e molto altro.
Spero l’abbiate trovata una lettura utile e interessante.
Se vi va di ripercorrerla o di condivdiderla con qualcuno qui la trovate in formato integrale.
Colgo l’occasione per ringraziare Stefano Feltri che ha ospitato “Stati della computazione” sulla sua seguitissima newsletter, Appunti, permettendole di essere letta da moltissime persone.
Nanismo europeo
Cominciamo da un articolo/newsletter di Bloomberg che, a partire dall’andamento di indici e titoli, traccia un impietoso confronto tra l’andamento dell’economia europea e quello dell’economia americana nell’ultimo decennio.
Traduco:
I piani di Donald Trump per tagliare le tasse e ridurre le regolamentazioni rendono le azioni statunitensi più attraenti, mentre l’Europa deve affrontare nuovi dazi sulle sue maggiori aziende e la prospettiva di ulteriori fughe di capitali. Senza contare la guerra a est, che oggi sembra intensificarsi.
“L'Europa è colpita da tutti i fronti e sta tornando l'avversione al rischio”, ha dichiarato Luca Paolini di Pictet Asset Management. “È difficile immaginare cosa potrebbe salvarla”.
Le azioni europee hanno subito un calo dopo la vittoria di Trump e l’euro è sceso verso la parità con il dollaro, rafforzando uno status quo diseguale che esiste da anni: l’Europa genera una crescita economica più debole rispetto agli Stati Uniti e, di conseguenza, molta meno ricchezza per chi investe nei suoi mercati.
Due dati evidenziano quanto siano diseguali le due realtà:
Con 63 trilioni di dollari, il valore totale delle azioni statunitensi è ora quattro volte maggiore rispetto a quello di tutte le borse europee messe insieme. Dieci anni fa non era nemmeno il doppio.
In Europa non esiste una singola azienda sul mercato con una valutazione superiore a 500 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti ce ne sono otto che valgono più di 1 trilione.
Working class?
A proposito di americani… interessante analisi di Noah Smith (condivisibile o meno) sulla consistenza (reale o presunta), e l’identikit socio-economico, della cosiddetta “working class” USA e sul motivo per cui la “class politics” (à la Bernie Sanders, per intenderci) non è l’antidoto per sconfiggere Trump.
(Strano che a nessuno – che io sappia – siano ancora venute in mente freddure su “woking class” o simili)
Scherzi a parte, ecco due estratti
È risaputo che la maggior parte degli americani si considera “classe media”, ma sapevate che la maggior parte degli americani si definisce anche “working class”? Osservate questo sondaggio:
È piuttosto sorprendente che il 51% dei repubblicani con istruzione universitaria e il 59% dei repubblicani con redditi elevati si definiscano “working class”. E, sebbene le percentuali per i democratici siano più basse, sono comunque significative. Agli americani piace proprio pensarsi come “working class”, indipendentemente da quanto guadagnano o dai titoli di studio che hanno appesi al muro.
Potrei speculare sul perché sia così. Per molti repubblicani oggi, essere “working class” probabilmente significa semplicemente non identificarsi con la cultura progressista a cui aderiscono la maggior parte degli americani con alta istruzione. Anche se sei ricco e hai una laurea, potresti sentirti in solidarietà culturale con elettori a basso reddito e senza istruzione universitaria, che sono respinti o confusi da termini come “eteronormativo”, “cisgender” o “appropriazione culturale”. Per i democratici con redditi elevati o un alto livello di istruzione, definirsi “working class” potrebbe essere solo un modo per dire che guadagnano il loro reddito lavorando, piuttosto che vivendo di rendite passive da azioni o da immobili.
E anche
Il fatto che la classe professionale istruita negli Stati Uniti abbia una cultura abbastanza unificata non significa che le persone che non sono andate al college abbiano una qualche forma di solidarietà o coscienza di classe lavoratrice. Il college è un’istituzione fortemente integrativa: trasmette una certa cultura e certi atteggiamenti a chi lo frequenta, insegnando loro a comportarsi come una comunità unitaria. Ma gli americani che non frequentano il college generalmente non hanno nulla di simile, a meno che non si uniscano all’esercito o non siano profondamente religiosi. Di conseguenza, la “classe” dei non laureati è altamente frammentata e isolata. Possiamo chiamarli “working class” se vogliamo, ma ciò non significa che si comporteranno come tale o che si interesseranno quando Bernie gli fa l’occhiolino.
Un’economia postindustriale come quella americana ha molti lavoratori, ma non una vera “working class”. È per questo che, se i Democratici vogliono riconquistare gli elettori con redditi più bassi e senza istruzione universitaria, penso che dovranno appellarsi a loro come “americani”, piuttosto che come parte di una lotta di classe. La politica di classe di Bernie Sanders poteva sembrare un’alternativa rinfrescante all’identitarismo razziale nel 2016, ma in realtà è qualcosa di appartenente a un’altra epoca.
Pertanto, penso che, sebbene i Democratici debbano sicuramente affrontare le questioni economiche, l’idea che gli americani con redditi bassi e senza laurea possano essere motivati a ribellarsi contro i ricchi attraverso una combinazione di politiche pro-sindacali, maggiori sussidi sanitari, un salario minimo più alto e una retorica infuocata contro i miliardari sia probabilmente illusoria. Per quanto possa piacere l’idea di una guerra di classe come comodo sostituto della politica identitaria, è improbabile che abbia maggiore successo.
Su questioni simili affrontate da un’altra prospettiva vi consiglio anche questa puntata di “Ones and Tooze”, il podcast di Foreign Policy con Adam Tooze.
Musk a Pechino
Per chiudere un interessante contributo da Il Partito, la newsletter “con caratteristiche cinesi” di Simone Pieranni, in merito allo sviluppo del mercato di Tesla in Cina, un particolarmente significativo se consideriamo le recenti affiliazioni politiche del proprietario.
Ecco uno stralcio. Il resto, insieme ad altri interessanti spunti, lo trovate su Il Partito.
Proprio nei primi giorni del mio soggiorno pechinese a pagina 3 del Quotidiano del Popoloc’era un articolo su Tesla […] si legge che
Ad aprile 2018, il Segretario generale Xi Jinping ha annunciato di dover allentare prima possibile le restrizioni sugli investimenti stranieri nell'industria automobilistica. E tre mesi dopo Tesla ha annunciato la costruzione di una fabbrica a Shanghai, con un investimento totale di 50 miliardi di yuan e una capacità produttiva annuale pianificata di 500.000 veicoli. A gennaio 2019, la Gigafactory di Shanghai di Tesla ha cominciato a lavorare a pieno regime e già a dicembre la linea di produzione aveva rilasciato il primo veicolo.
Tesla ha cominciato a correre in Cina: questo ha creato come effetto primario la necessità di correre anche per i produttori cinesi, costrette ad accelerare sull’innovazione. E quindi il dato delle 10 milioni di auto prodotte in Cina qust’anno dimostra una cosa: che Tesla ha avuto modo di investire in Cina e lanciare la sua sfida. Che le case automobilistiche cinesi l’hanno raccolta, portando a loro volta tutto il settore automotive mondiale a dover accelerare.
Sviluppando capacità reali attraverso una concorrenza aperta, la Cina di oggi è diventata il centro industriale più attivo al mondo per l'innovazione tecnologica dei veicoli a nuova energia. Nel 2023, le esportazioni di automobili della Cina sono balzate al primo posto a livello mondiale, tra cui le esportazioni di veicoli a nuova energia hanno superato 1,2 milioni di unità, aumentando del 77,6% anno su anno.
Il “messaggio” arriva poi abbastanza dritto:
La cooperazione e il reciproco vantaggio sono la strada da seguire, mentre l'isolamento e l'esclusività sono vicoli ciechi. Solo attraverso la cooperazione win-win si possono realizzare cose fatte bene e su larga scala. Sfruttando i vantaggi della tecnologia e del brand, e sostenuta dal mercato di consumo cinese su larga scala, la sostanziale crescita delle vendite di Tesla ha guidato il rapido sviluppo dell'industria e delle catene di fornitura che stavano intorno.
Se siete nuovi da queste parti, io mi chiamo Cesare Alemanni. Mi interesso di questioni all’intersezione tra economia e geopolitica, tecnologia e cultura. Per Luiss University Press ho pubblicato La signora delle merci. Dalle caravelle ad Amazon, come la logistica governa il mondo (2023) e Il re invisibile. Storia, economia e sconfinato potere del microchip (2024).
sempre bravissimo