Come spesso accade in Italia, la campagna elettorale per le elezioni europee si è contraddistinta per la pochezza dei contenuti. Al loro posto l’abituale teatrino della politica fatta lanciandosi gli spaghetti e sbraitando a bocca piena. Del resto si sa che ore di vaneggiamenti di Porro, Sgarbi e Travaglio su “tema X” fanno audience e i media italiani sono sempre lieti di vellicare i più bassi istinti del salottismo politico (e del suo pubblico compiacente). E via di orchestrina sul Titanic.
Nel mio piccolo cerco di fare altro. Ho pensato perciò di raccogliere letture in grado di aggiungere ampiezza e profondità al punto di vista dei lettori di Macro sulle questioni più urgenti che riguardano l’Europa e il suo futuro.
Promemoria: è uscito Il re Invisibile, il mio libro sulla storia, l’economia e la geopolitica del microchip, l’oggetto tecnologico più “potente” al mondo, il presupposto delle tecnologie (da internet all’AI) che stanno trasformando le nostre vite. All’interno trovate anche un capitolo dedicato proprio alle mosse della UE per rafforzare l’Europa del chip.
Domani, sabato 8 giugno, dalle 11.30 alle 12.00 ne parlo a Eta Beta, il programma sull’innovazione di Rai Radio 1 condotto da Massimo Cerofolini.
Europa? Quale Europa?
Comincio da un mio lungo pezzo, pubblicato a novembre qui su Macro, in cui facevo un punto complessivo dello “stato dell’Unione”, e dei progetti di autonomia strategica europea, in relazione ad aree come la politica economica, la sicurezza, le tecnologie, le AI, il clima etc.
Purtroppo il bilancio non poteva essere molto positivo e nel pezzo scrivevo:
L’Europa ha oggi lo stesso problema che si è voluto eludere trent’anni fa (e ancora prima negli anni ‘50) nella speranza che si risolvesse da solo: un problema di sovranità e di legittimazione. È un problema spinoso e quasi intrattabile. Il tema della sovranità chiama in causa l’ontologia politica più profonda degli Stati membri, e dunque la loro stessa “ragion d’essere”. In questo preciso momento storico, inoltre, un eventuale aumento di sovranità dell’Unione Europea difficilmente avrebbe i numeri per legittimarsi per via democratica (leggasi: difficilmente gli europei di oggi voterebbero per aumentare la sovranità delle istituzioni europee a scapito di quella dei loro paesi). È un gatto che si morde la coda.
La mancanza di una vera e propria sovranità dell’Unione, in grado di prevalere sui conflitti tra gli interessi dei singoli paesi, si palesa, come abbiamo visto, nell’economia, nella politica estera, nella difesa, nelle scelte industriali. Si palesa anche nella mancanza di un gestione efficace e solidale – all’altezza dell’immagine “civilizzatrice” che l’Europa vuole trasmettere al mondo – dei flussi migratori, con tutto ciò che tragicamente ne consegue per le stragi del Mediterraneo.
Una nuova mappa politica
Dettagliato e ottimo articolo/analisi dell’European Council on Foreign Relations sui temi chiave intorno a cui si giocheranno le elezioni. Con la sottolineatura di un paradosso e ovvero che:
Quando si tratta delle crisi che l’Europa ha affrontato negli ultimi anni, i nostri sondaggi rivelano che i partiti tradizionali rischiano di enfatizzare proprio gli aspetti che probabilmente li renderanno impopolari. Quando gli europeisti parlano di quelle che considerano le storie di successo europee per eccellenza degli ultimi anni – la risposta alla pandemia di covid-19, il sostegno all’Ucraina o il Green Deal europeo – rischiano di amplificare le loro debolezze agli occhi di molti elettori.
Ciò potrebbe sconcertare i leader europei che sono, per molti aspetti, giustamente orgogliosi del modo in cui hanno affrontato i rischi del covid-19, sostenuto l’Ucraina e portato avanti il Green Deal europeo. Ma i nostri dati mostrano che pochi di questi argomenti mobiliteranno gli elettori a loro vantaggio. Al contrario, rischiano di creare più opposizione che sostegno.
La questione della destra
Il grande tema di queste elezioni sarà, ovviamente, quanto ancora cresceranno le destre e con quali dinamiche al loro interno, tra forze maggiori che, giunte al potere si sforzano di apparire normalizzate in ossequio ai numerosi vincoli esterni, e movimenti in ascesa che, per effetto centrifugo, diventano ancora più radicali. La fluidità degli allineamenti segue logiche che non sono più soltanto comprensibili attraverso la demarcazione tra le posizioni del gruppo Identità e Democrazia (Lega, Marine LePen etc) e quelle del gruppo Conservatori e riformisti (Meloni etc.).
Il Financial Times ha realizzato un breve documentario che propone un’efficace sintesi della questione.
Un ruolo decisivo nel determinare il futuro bilanciamento delle destre europee lo giocherà Giorgia Meloni che un editoriale di Foreign Policy ha definito la “queenmaker” della politica UE.
In un articolo uscito circa negli stessi giorni, Politico avvertiva invece che proprio il recente avvicinamento alla Meloni potrebbe in realtà rivelarsi il chiodo nella bara sul nuovo mandato della Von Der Leyen.
Mentre la Meloni viene considerata come un possibile kingmaker—o meglio, queenmaker—che potrebbe fornire i voti di cui von der Leyen potrebbe aver bisogno, alcuni dicono che fare amicizia con la Meloni potrebbe aver già irritato i socialisti e ritorcersi contro von der Leyen.
"La Von der Leyen è finita. Perché? A causa della sua vicinanza alla Meloni," sostiene Leila Simona Talani, capo del Centro per la Politica Italiana al King’s College di Londra. "Von der Leyen ha preso posizioni molto di destra con la Meloni al suo fianco. La sinistra italiana e spagnola ha preso molto male questa situazione."
Proprio oggi, Politico ha pubblicato un podcast che fa un ultimissimo punto pre-elettorale dell’intera questione, mentre la storia di copertina che apre il sito si chiede se non siamo giunti al “momento Trump” dell’Europa.
Due discorsi
I discorsi che, negli ultimi mesi, hanno offerto più spunti in merito al futuro dell’Europa sono stati entrambi tenuti ad aprile. Il 16 quello di Mario Draghi alla High-level Conference on the European Pillar of Social Rights, il 25 quello di Emmanuel Macron alla Sorbona.
Il primo è stato tradotto e pubblicato da Le Grand Continent, il secondo è disponibile integralmente (in inglese) sul sito del Groupe d’etudes geopolitiques di Parigi.
Due citazioni da entrambi (nell’ordine, grassetti miei):
Draghi:
Non è la competitività a essere viziata come concetto. È l’Europa che si è concentrata sulle cose sbagliate.
Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo noi stessi come concorrenti, anche in settori come la difesa e l’energia in cui abbiamo profondi interessi comuni. Allo stesso tempo, non abbiamo guardato abbastanza verso l’esterno: con una bilancia commerciale in fin dei conti positiva, non abbiamo considerato la nostra competitività esterna come una questione di policy seria.
In un ambiente internazionale favorevole, abbiamo fatto affidamento sulla parità di condizioni a livello globale e su un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa.
Altre regioni, in particolare, hanno smesso di rispettare le regole e sono attivamente impegnate a elaborare politiche volte a migliorare la loro posizione competitiva. Nel migliore dei casi, queste politiche hanno l’obiettivo di riorientare gli investimenti verso le proprie economie a scapito della nostra; nel peggiore, sono progettate per rendere permanente la nostra dipendenza da loro.
[…]
Ci manca una strategia su come tenere il passo nella corsa, sempre più spietata, per la leadership nelle nuove tecnologie. Oggi i nostri investimenti in tecnologie digitali e avanzate, anche per la difesa, sono inferiori rispetto a quelle di Stati Uniti e Cina, e solo quattro dei primi 50 player tecnologici al mondo sono europei.
Ci manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali da condizioni di disparità globali dovute ad asimmetrie nella regolamentazione, nei sussidi e nelle politiche commerciali.
Macron:
Prima di tutto, ci manca la capacità di affrontare efficacemente i rischi che affrontiamo. Nonostante tutto ciò che abbiamo fatto, e che ho appena menzionato, affrontiamo una sfida cruciale in termini sia di ritmo che di modello. Abbiamo iniziato a svegliarci. La Francia, da parte sua, ha raddoppiato il bilancio per la difesa. Stiamo procedendo in questa direzione con questa seconda legge di programmazione militare. Ma su scala continentale, questo risveglio è ancora troppo lento, troppo debole di fronte al riarmo generalizzato del mondo e alla sua accelerazione
Le tensioni tra Stati Uniti e Cina hanno portato a un aumento delle spese militari e dell'innovazione tecnologica negli armamenti. Ora abbiamo forze regionali prive di inibizioni, in grado di dimostrare le loro forze, come Russia e Iran, per citarne solo due. L'Europa è circondata, pressata da molte di queste potenze ai suoi confini e talvolta al suo interno. Sì, siamo ancora troppo lenti e non abbastanza ambiziosi per affrontare la realtà di queste trasformazioni. Qualunque cosa ci riservi il futuro, dobbiamo affrontarla anche noi.
Gli Stati Uniti hanno due priorità. Prima l'America, il che è legittimo, e poi la Cina. L'Europa non è una priorità geopolitica, non lo sarà nei prossimi anni o decenni, nonostante la solidità della nostra alleanza e la fortuna di avere un'amministrazione molto impegnata nel conflitto ucraino. E quindi, sì, i giorni in cui l'Europa acquistava la sua energia e i fertilizzanti dalla Russia, esternalizzava alla Cina e si affidava agli Stati Uniti per la sicurezza sono finiti.
Abbiamo iniziato a intraprendere cambiamenti importanti. Ma non siamo all'altezza del compito, poiché le regole del gioco sono cambiate. E il fatto che la guerra sia tornata sul suolo europeo, e che venga combattuta da una potenza nucleare, cambia tutto. Il semplice fatto che l'Iran sia sul punto di acquisire armi nucleari cambia tutto.
Politica industriale
Uno dei temi affrontati dal discorso di Draghi, e di cui parlo anche ne Il re invisibile in relazione alle prospettive e all’efficacia del cosiddetto “EU Chips Act” è quello dell’efficacia della politica industriale europea, soprattutto per quanto riguarda le tecnologie più strategiche.
In questa fase di forte ritorno dell’intervento degli Stati nelle scelte industriali, l’Europa si è mossa in ritardo e con minori strumenti rispetto a USA e Cina. Tuttavia ciò che preoccupa è la sua difficoltà nell’esprimere e seguire linee comuni e condivise da tutti i membri. Un esempio che conosco bene è proprio quello dei chip, dove, ancor prima di arrivare al confronto con le altri grandi economie continentali, l’Europa ha iniziato una “guerra dei sussidi” tra i singoli paesi membri (una contesa che, peraltro, ha per ora lasciato tutti all’asciutto o quasi).
Sulla politica industriale, a parole l’Europa si presenta come un soggetto che intende parlare con una singola voce e con una singola strategia d’insieme e invece, all’atto pratico, sembrano ancora prevalere i singoli interessi nazionali e i differenti potenziali d’investimento e di spesa dei paesi, in una riproposizione di inter-dinamiche già viste in ambito fiscale e finanziario.
Traslati sul terreno delle politiche industriali, i problemi tuttavia appaiono, se possibile, ancora più evidenti e marcati (e perciò politicamente pericolosi). Nonché paradossali per un’Unione che, nel 1951, nasce come “comunità del carbone e dell’acciaio”, ovvero dall’idea che la politica industriale potesse essere un canale attraverso cui costruire pace e coesione anche socio-culturale tra paesi che si facevano guerra da secoli.
E invece nel mondo che, con le mosse di Cina e USA, è tornato a concepire l’intervento dello Stato nell’economia soprattutto come strumento di controllo delle supply chain e di divisione tra sfere d’influenza, l’incapacità europea di determinare una prospettiva d’azione industriale comune, e su scala continentale, rischia di diventare pretesto per ulteriore litigiosità e motivo di crescente frammentazione non già tra l’Europa e il resto del mondo ma in seno all’Europa stessa.
Il che non è un problema solo politico ma anche, e soprattutto, propriamente industriale.
A causa delle caratteristiche e delle dimensioni dei fenomeni produttivi di questa epoca, è oggi fondamentale poter contare su grandi scale per sviluppare e rendere sostenibili – sia a livello economico che per questioni di rodaggio – processi industriali innovativi e nuove tecnologie. Anche Draghi, nel suo discorso, ha sottolineato la necessità di: “ favorire le economie di scala”, poiché i “nostri principali concorrenti stanno approfittando della propria dimensione continentale per generare economie di scala, aumentare gli investimenti e catturare quote di mercato nei settori in cui questo conta di più. In Europa avremmo naturalmente lo stesso vantaggio, ma la frammentazione ci frena”.
Come spiega Martina Casarsa, in questo bell’articolo per Materia Rinnovabile, la frammentazione delle linee industriali rischia di compromettere anche l’efficacia del green deal e trasformarlo nell’ennesimo pezzo di burocrazia europea, percepito più per ciò che impone di fare (o non fare) e di perdere, che per le prospettive e le opportunità che offre.
La guerra in Ucraina e il futuro della difesa
Come scrive Tommaso Luisari in questo report per l’Istituto Affari Internazionali, la guerra in Ucraina ha “evidenziato l’incapacità dell’industria europea della difesa di mettere a disposizione un flusso di materiale adeguato alle necessità dei paesi membri dell’Unione”.
Come ormai si è capito, il conflitto di attrito con la Russia si deciderà nelle retrovie della produzione militare. Come in tutte le guerre moderne, saranno dunque, anche in questo caso, le capacità industriali a fare la differenza.
Tuttavia, data la natura specifica dell’industria in questione, è importante sapere chi è chi, chi fa cosa e perché, con quanti e quali soldi. Una mappa per cominciare a orientarsi nel “revival militare europeo” la offriva questo articolo del Financial Times di febbraio.
La guerra, e la questione “russa”, tuttavia, in queste elezioni sono anche molto altro. Sono le sempre più frequenti interferenze della contro-informazione di Putin nelle campagne elettorali dei diversi paesi (qui ne scrive, in chiave italiana, il collega e amico Roberto Pizzato su Domani).
Soprattutto se il giudizio su Putin è ancora una delle ragioni di divisione all’interno della galassia dell’estrema destra europea, la guerra in Ucraina ha ridotto le distanze tra le posizioni dei diversi partiti, e soprattutto la loro assertività in merito, come evidenzia questo studio pubblicato lo scorso anno.
Conoscere le cose giuste
Per concludere mi piace segnalare questo articolo di Alessandro Aresu apparso ad aprile su Le Grand Continent.
Non solo parla di una cosa europea che mi sta a cuore, poiché riguarda i chip, ovvero l’azienda olandese ASML (ne abbiamo parlato anche qui), che realizza le macchine complicatissime con cui si stampano, usando la luce, transistor poco più grandi di un singolo atomo. Ma perché è un articolo che, non senza ironia, ci ricorda che dalle grandi crisi si esce solo e soltanto imparando a dare la giusta importanza alle cose giuste. Senza farsi distrarre da quelle superflue, chiassose e solo superficialmente rilevanti.
E, nella nostra epoca, le cose davvero importanti avvengono in quegli spazi in cui l’innovazione scientifico-tecnologica fa avvenire miracoli tecnici con ricadute enormi sulle nostre vite e sulle nostre società.
Alcune di queste cose accadono anche in Europa. Solo che finché restano coperte dal rumore, il loro segnale non arriverà mai là dove dovrebbe arrivare, a fornire nuove chiavi di lettura e di comprensione della realtà che inducano le persone a scelte meno estreme e disperate di dare il voto a estremisti disperati.
Scrive Aresu:
In un mondo di guerra tecnologica e capitalismo politico, parliamo spesso di “auto-sufficienza” o “indipendenza” ma, come ha detto Peter Wennink in un’illuminante lezione all’università di Eindhoven6, ciò che veramente conta è generare meccanismi di “mutua dipendenza” tra l’Europa e il resto del mondo. E ciò è avvenuto, come fattore strutturale, grazie ad aziende come ASML e agli elementi principali del suo ecosistema, a partire dai campioni tedeschi dell’Ottocento e del primo Novecento, Zeiss e Trumpf, che nella filiera contemporanea dei semiconduttori hanno trovato una nuova rilevanza. E non a caso vi sono diversi interventi di Wennink e van den Brink che sottolineano il rilievo di Zeiss e Trumpf per il successo di ASML, che è figlio della collaborazione di queste aziende e di diverse altre. Il libro di Raaijmakers descrive molto bene il rapporto di lunghissimo corso di van den Brink con gli ingegneri di Zeiss, fin dai loro primi incontri e confronti nel 1984. Sempre dal punto di vista culturale, così come Tim Cook viene intervistato da Dua Lipa che gli domanda della sua carriera e della filiera dell’iPhone, è assurdo che Martin van den Brink non venga braccato dalla popstar e da altre figure influenti, affinché parli di specchi, di laser, di fotoresistori, racconti il suo incredibile percorso professionale in questi quattro decenni e ispiri le carriere delle giovani generazioni. Tanto anche per guardare i reels di Dua Lipa occorre ASML.
Amen.