Macro | π Quale ordine? - III π
Di cosa parliamo quando parliamo di "ordine internazionale"? Ultima puntata: nel mondo multipolare.
[Questo Γ¨ lβultimo di tre post sul tema del cosiddetto βordine liberale internazionaleβ. Qui e qui, gli episodi precedenti]
Nelle puntate precedenti abbiamo visto come, dopo secoli di guerre seguite alla frattura dellβ βordine cristiano-medievaleβ, i filosofi europei del β700 si chiedano se sia possibile dotare le relazioni tra Stati di un βordine internazionaleβ che prevenga i conflitti.
Alcuni filosofi propongono federazioni basate sul riconoscimento tra βliberi Statiβ, tuttavia appare chiaro che in assenza di regole β e di un potere in grado di farle rispettare β tali federazioni non sono sostenibili.
Il tema dellβ βordine internazionaleβ Γ¨ caratteristico di tutto lβ β800 e riemerge con forza dopo il 1918. Γ lβanima dellββidealismo wilsonianoβ, dal nome del presidente USA che propone la formazione della Lega delle Nazioni, la prima istituzione pensata per mediare le controversie tra Stati.
La Lega delle Nazioni, tuttavia, non riesce a evitare un nuovo conflitto β la Seconda guerra mondiale β frutto del prevalere delle logiche di βpuro potereβ sui meccanismi di equilibrio internazionale. Alla fine della guerra il bisogno di βpaceβ ed βordineβ Γ¨ allβapice storico ed Γ¨ in questo contesto che si assiste alla piΓΉ grande fioritura di istituzioni, patti e regolamentazioni internazionali della Storia, dalle Nazioni Unite in giΓΉ.
Principale promotore di tali istituzioni sono gli Stati Uniti, che fanno da garanti del cosiddetto βmondo liberoβ durane la guerra fredda. Sebbene una matrice βliberaleβ fosse presente fin dal Settecento, e sicuramente lo era nellβidealismo wilsoniano, Γ¨ solo in questa fase che si comincia a parlare con insistenza di βordine liberale internazionaleβ, ponendo enfasi sul valore della libertΓ tanto in senso politico (le libertΓ democratiche) che economico (il libero mercato). Tale enfasi Γ¨, ovviamente, funzionale a far risaltare il modello occidentale rispetto allβantitetico ordinamento sovietico.
Conclusa la guerra fredda, durante il cosiddetto βmomento unipolareβ, Stati Uniti e alleati avviano un programma di espansione di valori e principi tipici del pensiero e dellβordine liberale. Esso si incarna, tra le altre cose, nellβestensione della NATO, nellβinterventismo militare in medio-oriente e, soprattutto, nella globalizzazione economica, improntata a principi βneo-liberalβ e guidata da istituzioni internazionali, ma di costituzione occidentale, come FMI, Banca Mondiale e WTO.
La luna di miele del momento unipolare si conclude tragicamente lβ11 settembre 2001. La reazione emotiva a quellβevento innesca una crisi, in primis culturale, al cuore stesso dellβordine liberale. La guerra in Iraq non solo Γ¨ un grave errore strategico ma, venendo dichiarata contro il parere dellβopinione pubblica mondiale, ricorda al mondo che gli USA sono piΓΉ di un semplice βprimus inter paresβ allβinterno del sistema, in teoria multilaterale, delle istituzioni internazionale. La scelta, pressochΓ© unilaterale, di attaccare Baghdad rimette al centro il problema del βpuro potereβ e la sua possibilitΓ di determinare in qualunque momento lβeccezione alle regole.
La crisi di prestigio e funzionalitΓ dellβordine liberale si allarga con il crack finanziario del 2007/8. Nei suoi infiniti strascichi, esso mette in dubbio lβefficacia e la soliditΓ del modello di sviluppo economico che lβintellighenzia neo-liberal occidentale ha esportato nel mondo nei quasi tre decenni precedenti.
Il tutto β e qui termina il riassuntoΒ β accade mentre nuovi attori si affacciano sulla scena: la Cina che per decenni ha sfruttato la globalizzazione per crescere economicamente senza per questo aprire al modello democratico in politica. La Russia che, dopo un tentativo di avvicinamento allβEuropa, si arrocca a partire dalla crisi Georgiana su posizioni neo-zariste, con Putin che non perde occasione per sfruttare lβ βerrore irachenoβ per giustificare il proprio imperialismo. E, infine, India, Brasile e altri paesi in crescita economica che, seppure in modo meno aggressivo, esprimono insoddisfazione per lo status quo internazionale che questo secolo ha ereditato dal precedente.
Gli anni Dieci hanno esasperato la situazione. Da un lato le crisi interne a quasi tutte le democrazie occidentali hanno intaccato il prestigio dellβistituzione che esse rappresentano, dallβaltro i paesi sopra citati hanno conosciuto un aumento della personalizzazione del potere al loro interno. Γ cosΓ¬ montato un crescente attrito tra il fronte dei paesi che sostengono lβ βordine liberaleβ e i nuovi attori emergenti che lo sfidano. Fronti entrambi, peraltro, meno coesi di quanto si dica.
Negli ultimi dieci anni, i paesi emergenti hanno iniziato a contestare in modo sempre piΓΉ esplicito la legittimitΓ di un βordine internazionaleβ alla cui costituzione ritengono di non aver partecipato e che, dicono, Γ¨ funzionale solo a perpetuare il privilegio dei paesi che lo hanno architettato. Questo tipo di rimostranze nel tempo sono state rivolte alle piΓΉ disparate istituzioni internazionali.
Non solo alle istituzioni piΓΉ chiaramente βpoliticheβ come la NATO ma anche a quelle teoricamente βneutraliβ. Ricorderete come durante la prima fase del covid la Cina abbia messo in dubbio lβOMS, adombrando sospetti di scarsa imparzialitΓ . La messa in dubbio della validitΓ delle regole internazionali Γ¨ uno dei canovacci nella retorica di Putin, da ben prima dellβinvasione dellβUcraina. Di recente il neo-rieletto presidente brasiliano Lula ha piΓΉ volte dichiarato di trovare inconcepibile che il dollaro sia ancora la valuta dominante del commercio internazionale.
A inizio settembre ha fatto scalpore lβassenza di Xi Jinping dal G20 di New Dehli, una scelta che Γ¨ stata letta come uno specifico smacco allβIndia ma che forse voleva comunicare (anche) altro: ovvero che la Cina non riconosce piΓΉ le occasioni e i luoghi in cui, dalla fine della guerra fredda, le leadership mondiali si incontrano. Un segnale che si inserisce in una precisa strategia di delegittimazione dellβordine internazionale che Xi Jinping persegue da anni.
Come detto nella prima puntata, la situazione attuale ricorda per certi versi il contesto di fine β800 e inizio β900, quando lβimpero inglese, e lβordine che esso aveva promosso e sostenuto, cominciΓ² a mostrare i primi segni di cedimento e nuove potenze si fecero avanti per reclamare maggiore spazio. Nel ruolo che oggi Γ¨ della Cina, al tempo cβera non solo la Germania guglielmina, di cui giΓ si Γ¨ detto, ma gli stessi Stati Uniti. I quali, ironicamente, al tempo denunciavano problematicheΒ β insite nelle βdispari opportunitΓ β dellβordine internazionale britannico β non troppo diverse da quelle che oggi la Cina e gli altri emergenti rivendicano.
Una delle differenze con allora Γ¨ che oggi, al termine di un secolo e mezzo di vertiginosa integrazione tecnologica, culturale ed economica del pianeta, la posta in gioco sembra davvero essere la possibilitΓ di scrivere le regole di un vero e proprio βordine globaleβ, che includa in un solo βsistemaβ Oriente ed Occidente. Forte della sua βrecenteβ posizione egemonica, gli Stati Uniti non vogliono perdere questa opportunitΓ . Dal canto suo, la Cina si sente, per storia e cultura, destinata a tornare quellβImpero di mezzo che fu per migliaia di anni, il βpolo magnetico del mondoβ. E, simili visioni di grandeur, e di pericolosa predestinazione storico-politica, animano anche i progetti di Russia, India e Iran.
Il risultato Γ¨ lβattuale incremento di entropia geopolitica. Lβecumene internazionale va da anni verso un crescente (dis)ordine multipolare che, giΓ ora, sta producendo lae frammentazione di fondamentali sistemi internazionali, non ultimi quelli economici e produttivi. E non solo.
Tra le βvittimeβ della fase che stiamo attraversando rischia di esserci lβispirazione βliberaleβ dellβattuale ordine internazionale. La prima componente a cedere Γ¨ stata quella economica. Ovvero la globalizzazione (neo)liberale dellβeconomia che fu una delle principali sovrastrutture erette durante il momento unipolare. Dalle trade wars di Trump fino alla Bidenomics, la globalizzazione Γ¨ stata messa in discussione in primis dagli Stati Uniti, che vi hanno scorto il primo motore immobile dellβascesa cinese e del loro (relativo) declino. Il ritorno del protezionismo, lβinvito allβautarchia produttiva e il crescente frazionamento dei sistemi industriali sono chiari segnali di arretramento degli attributi (neo)liberali che avevano caratterizzato la fase unipolare del laissez faire e del free trade.
Anche in questo caso possiamo rivolgerci al passato e cogliere alcune somiglianze con quanto giΓ accaduto in altre congiunture simili. Basti ricordare i rigurgiti di protezionismo che βcolpironoβ, a piΓΉ riprese, la Gran Bretagna tra fine β800 e anni β30.
Se il ripensamento della globalizzazione Γ¨ in gran parte perorato dagli USA, altre architravi dellβinternazionalismo liberale vengono messe in discussione dai loro avversatori (anche se non mancano le obiezioni endogene al mondo occidentale). Stiamo parlando dei valori culturali, etici e politici del pensiero liberale occidentale. E non potrebbe essere altrimenti. Non solo, come abbiamo visto nella prima puntata, questi valori sono tuttβaltro che universali, bensΓ¬ sono frutto di una specifica traiettoria culturale europea ed occidentale, ma sono inconciliabili con le forme di organizzazione politica che caratterizzano paesi come Cina e India (e, nel pratico, anche la Russia).
Γ per questo che il dibattito culturale e filosofico sullβuniversalitΓ di alcuni concetti, e dei diritti che essi esprimono, Γ¨ uno dei campi su cui giΓ si combatte il futuro del mondo multipolare. Di tale dibattito ne vediamo, ogni giorno, tante piccole riproduzioni in scala domestica nelle cosiddette βculture wars". Tuttavia solo di rado ci rendiamo di quanto esse siano iscritte in turbolenze storiche e geopolitiche molto piΓΉ grandi, che esulano dal singolo paese o contesto culturale.
Questo significa che conquiste di civiltΓ che fino a pochi anni fa ritenevamo indiscutibiliΒ β i diritti umani fondamentali, lβabiura della guerra β torneranno precarie, nel momento in cui dovesse tramontare lβegemonia liberale? Il rischio cβΓ¨ ed Γ¨ un rischio che i passati comportamenti dellβOccidente (vedasi la guerra in Iraq, di cui si Γ¨ giΓ detto) hanno contribuito ad alimentare, rendendo piΓΉ contestabile lβesercizio di un qualsivoglia primato morale. Γ difficile sostenere lβuniversalitΓ etica di un ordine basato su regole violate non troppo tempo fa dagli stessi che le sostengono.
Se davvero lβordine liberale Γ¨ destinato a tramontare, o quantomeno a regionalizzarsi in Occidente (e anche questo non Γ¨ scontato), cosa ne prenderΓ il posto? Una nuova egemonia, con la Cina prima indiziata, che esporterΓ nuove istituzioni, regole e valori? O ci aspetta inevitabilmente un lungo interregno multipolare, non solo competitivo ma conflittuale e violento, come purtroppo sembra suggerire la guerra in Ucraina? Torneremo allβanarchia del βpuro potereβ, lo βstato di naturaβ delle relazioni internazionali che, da Kant in poi, i filosofi liberali avevano cercato dβimbrigliare con i loro progetti dβordine? Unβanarchia resa ancora piΓΉ difficile da gestire dallβestrema eterogeneitΓ di modelli, culture e interessi in gioco nel mondo ormai del tutto globalizzato?
Diverse scuole di pensiero forniscono diverse risposte a questi interrogativi. Personalmente trovo piΓΉ convincente quella di pensatori realisti come Stephen M. Walt, professore di relazioni internazionali alla Harvard Kennedy School. In un paper scritto a quattro mani con lβeconomista Dani Rodrik e riassunto su Foreign Affairs, Walt sostiene che le grandi potenze cercheranno, appunto con realismo, di accordarsi su un terreno minimo di convivenza (βa minimalist orderβ, come lo ha definito lo scienziato politico Andrew Latham). Di dotarsi, per esempio, di regole dβingaggio tali per cui lβuso del nucleare o delle armi chimiche e batteriologiche resti un assoluto tabΓΉ, o di garantirsi reciprocamente la sicurezza di alcune prerogative, come lβinviolabilitΓ territoriale, e la collaborazione su temi trasversali quali la mitigazione della crisi climatica.
In questo scenario diverse istituzioni e progetti di governance internazionale potrebbero convivere in diverse aree del mondo. Le istituzioni di stampo occidentale dovrebbero accettare di perdere parte della loro globalitΓ e tornare a far da riferimento solo per i paesi che vi si riconoscono, mentre nuovi progetti di infrastrutturazione del potere, per esempio la Belt and Road cinese ma non solo, cresceranno di rilevanza (giΓ lo hanno fatto) in determinati settori geografici.
Si tratterebbe del ritorno a un sistema basato su βsfere dβinfluenzaβ concorrenziali ma regolamentate da protocolli dβinterazione molto specifici per evitare escalation. Un sistema simile a quello su cui si reggeva il βconcerto dβEuropaβ di cui abbiamo parlato nella prima puntata. Secondo Walt, sarebbe un ordine sub-ottimale e piΓΉ precario di quello che sta tramontando ma comunque migliore di alternative ancora piΓΉ turbolente. Come per esempio quelle che si verificherebbero in caso di un trinceramento degli Stati Uniti a difesa di privilegi egemonici ormai insostenibili o, viceversa, di una irrefrenabile volontΓ di potenza cinese.
In uno scenario simile il potenziale di conflittualitΓ sarebbe, evidentemente, elevato ma su questo e altri panorami di questo interregno (per esempio il posto e il ruolo dellβEuropa in questa epoca), torneremo in futuro.
Negli ultimi giorni ho fatto una serie di presentazioni de La signora delle merci in Emilia Romagna. Per la precisione alla Fondazione MAST di Bologna, al Festival del Pensare Contemporaneo di Piacenza e al Festival di Internazionale a Ferrara.
Per coinvolgimento e presenza del pubblico sono andate, tutte e tre, oltre le mie aspettative. Volevo ringraziare quanti hanno partecipato e i relatori della varie occasioni, ovvero: nellβordine, Luca de Biase, Mattia Motta e Pierfrancesco Romano.
Colgo anche lβoccasione per comunicare la data della prossima presentazione, il 12 ottobre presso la libreria Annares di Milano (via Pietro Crespi, 11). A dialogare con me ci sarΓ Emiliano Audisio di Wired.